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La Società degli Accoltellatori

Panorama di Messina

Il primo storico maxiprocesso alla mafia venne istruito a Messina tra il 1871 e l’anno successivo. Il dibattimento, però, si tenne a Trapani per motivi di ordine pubblico. In riva allo Stretto, infatti, esisteva una forte conflittualità sociale e politica seguita all’annessione della Sicilia allo Stato sabaudo.

Questa situazione di instabilità, infatti, fu il contesto in cui nacque, secondo la Questura, un’associazione di malfattori conosciuta come Società degli Accoltellatori e degli Sparatori, o come gli stessi affiliati si definivano “Liberi purgatori”, che avrebbe operato a Messina già all’indomani della cacciata dei borboni. Di essa avrebbero fatto parte almeno un centinaio di individui appartenenti a tutti i ceti sociali, che avrebbero nel corso degli anni cercato con la forza dell’intimidazione, e quando necessario uccidendo, «d’imporsi negli incanti, nelle vendite, nell’esercizio dei mestieri, nelle operazioni del commercio», seminando il terrore in città.

Il processo ebbe inizio il 4 marzo del 1873 e vide alla sbarra 22 imputati. Altri 9 intanto si erano dati alla macchia. I reati di cui vennero chiamati a rispondere andavano dall’associazione di malfattori al tentato omicidio, dal furto all’omicidio volontario.

Il processo di Trapani durò un mese e si concluse con l’assoluzione di quasi tutti gli imputati. Il Tribunale, infatti, non ritenne valide le prove nei confronti dei 22 accusati per i sette omicidi di cui erano ritenuti responsabili, ma non riscontrò neanche l’esistenza dell’associazione a delinquere, cosa che gettò ulteriore discredito sul comportamento della Pubblica sicurezza e sulla stessa magistratura,  che secondo gli avvocati degli imputati, agiva per colpire gli avversari politici e in particolare i seguaci di Giuseppe Mazzini. Famosa l’invettiva di Giuseppe La Farina, di «porre fine senza altro indugio al regno dei mazziniani e degli accoltellatori». Mafia addirittura si riteneva fosse l’acronimo di “Mazzini autorizza furti incendi e aggressioni” .

Nelle elezioni del 1866 Giuseppe Mazzini venne eletto a Messina per tre volte di seguito. La prima volta, a febbraio, aveva battuto il monarchico Michelangelo Bottari. Le elezioni furono invalidate e così il 29 aprile e il 6 maggio Mazzini venne rieletto, ma il voto venne ancora dichiarato nullo. I messinesi però non lo abbandonarono e lo rielessero per la terza volta nel settembre dello stesso anno.

Questo perché, se era vero che la città era stata teatro di così tanti omicidi, una decina soltanto  nel 1872, era anche vero che il processo si inseriva, secondo lo storico Gerardo Rizzo, «nel contesto della lotta fra le due grandi fazioni politiche messinesi, i moderati  e i repubblicani, come dimostra l’allargarsi della polemica al campo giornalistico, con “L’Aquila Latina ”, giornale moderato, da una parte, e “L’Operaio” e “Fede e Avvenire”, repubblicani, dall’altra».

È utile ricordare che all’indomani della resa borbonica il Partito d’Azione occupò tutte le cariche importanti. Ma non seppe approfittare della situazione favorevole e quando l’emergenza finì si assistette al trionfo su tutti i fronti della Destra e della vecchia classe dirigente borbonica. Tutto cambia per non cambiare nulla.

Si aprì così una fase di incertezza e di scontento, con dimostrazioni di piazza e tumulti sia per le promesse disattese dai piemontesi, sia per l’aumento dei generi alimentari, nonché per la disoccupazione dilagante.

Era stata una lettera pubblicata il 17 luglio 1868, su “La Riforma” di Firenze, giornale della sinistra liberale, che si rifaceva a Francesco Crispi, a dare risonanza alla società di malaffare a Messina. In essa si raccontava che era nata nel 1850 per impadronirsi dell’amministrazione doganale. Fu questa lettera a mettere insieme tanti episodi, di pura criminalità e di dissenso politico, per sostenere l’esistenza di una cosca mafiosa.

Al centro del processo che si celebrò a Trapani ci fu l’assassinio di un certo Pasquale Bensaia, avvenuto il 25 settembre 1870. Prima di morire, però, Bensaia fece delle rivelazioni sulla cosca mafiosa che portò all’arresto di 30 persone. Il moribondo raccontò di tutti gli omicidi commessi nel 1870, a cominciare da quello di Carmelo Cappello, il 9 gennaio, ucciso a colpi di pistola e di coltello, a quello del 7 marzo di Filippo Spuria. Il 18 marzo fu la volta di Paolo Campanella, mentre il 15 luglio fu compiuto l’attentato a Michelangelo Bottari, fondatore e direttore de “L’Aquila Latina”, contro il quale furono sparati alcuni colpi di pistola che lo mancarono. Bottari, col suo giornale, si era distinto nella lotta contro l’associazione mafiosa. L’11 luglio cadde sotto i colpi dei sicari Francesco Musicò, mentre il 25 settembre fu la volta appunto di  Pasquale Bensaia.

Il governo del tempo, in mano alla Destra, parlava spesso di “mafia” e l’accomunava al dissenso politico. I deputati della Sinistra vennero accusati, scrive John Dickie, “di voler minare l’unità del paese, di  essere corrotti, di utilizzare i banditi per rastrellare voti, di essere mafiosi”. A denunciare la presenza della mafia a Messina in prima fila c’era “L’Aquila Latina” diretto dal Bottari.

Istruire il processo fu difficile. I giudici non prendevano decisioni. “L’Operajo”, giornale mazziniano, nel settembre 1871, attaccò i magistrati. Da una parte criticò il Regio procuratore Bruno, che aveva preso per oro colato i rapporti della Questura, dall’altro riportò le parole dell’istruttore Copperi, il quale dichiarò «di non aver trovato né capo né coda contro quell’esagerato numero di accusandi». Bene o male si approdò a «una requisitoria su di un procedimento, non istruito, ma arruffato artificiosamente nel peggior modo possibile».

Finalmente cominciò il processo. Agli atti un lunghissimo rapporto del questore Sborni del 2 luglio  1868, che raccontò dei reati degli affiliati. Un rapporto della Questura raccontò, poi, del ritrovamento in casa di certi Curaro e Quartarone di foto in cui sono ritratti insieme ad altri armati di pistole. Per l’accusa si trattò di una prova dell’esistenza dell’associazione.

Un colpo al processo, però, lo diede Michelangelo Bottari, vittima di un attentato per la sua lotta  al fenomeno mafioso. Bottari rimase sul vago, ma sostanzialmente ritrattò. Interrogati molti testi affermarono che non sapevano nulla dell’associazione e che gli omicidi in questione erano dovuti a vendetta privata. Venne sentito anche il direttore della “Gazzetta di Messina”, Stefano Ribera, che negò l’esistenza dell’associazione. A smontare definitivamente il castello accusatorio la difesa degli imputati che  puntò il dito contro l’accusa, che a suo dire voleva perseguire l’opposizione mazziniana.

Fatto sta che gli imputati vennero assolti e che a Messina continuarono, come raccontò Giacomo Rol,  ferimenti e omicidi misteriosi. La storia si ripete?

 

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