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Se il poeta va al macello

Se il poeta va al macello

Un mondo ideale esiste. Il mondo di quella che Milosz chiama la Moralità. Ed è quel mondo in cui Iosif Brodskij (1940-1996) un giorno razzolava concime con il forcone in un sovchoz vicino a Archangel'sk e un paio d'anni dopo raccoglieva onori d'ogni genere, ivi compreso il Premio Nobel. Certo, prima d'arrivare a Stoccolma, Brodskij ne ha dovute sopportare di sevizie da parte del regime sovietico: interrogatori quotidiani, carcerazioni, esilio e perfino reclusioni in ospedali psichiatrici (molto peggio del carcere e dell'esilio, raccontò Brodskij, un'autentica tortura). Finché, finalmente viene cacciato da Leningrado. E' il 1972, Brodskij ha 32 anni. E in Occidente, prima di partire per gli Stati Uniti, viene aiutato dal suo grande nume tutelare poetico, Wystan Auden. Il loro incontro a Vienna (giugno '72) sembra la scena di un film. Brodskij diceva di scrivere non per i posteri, ma per piacere alle ombre dei miei antenati poetici.
Adelphi ha appena pubblicato le "Conversazioni" con Iosif Brodskij, curate da Cynthia L. Haven, traduzione di Matteo campagnoli (pp. 314, euro 20): un libro talmente prezioso. Dovrebbe essere studiato dai giovani, amato dai vecchi.
Quando era ancora cittadino russo, nel novembre del 1963, per un articolo apparso sul Večernij Leningrad, Brodskij fu accusato di "parassitismo sociale" e subì un processo con relativa, scontata condanna - la prima di una lunga serie - per "fannullagine". Durante tale processo, il giudice chiese a Brodskij qual era la sua professione. "Poeta, poeta e traduttore", rispose lui. "Poeta! - lo derise il giudice - E chi l'avrebbe stabilito che siete poeta?"
"Dio, signor giudice - rispose Brodskij - l'ha stabilito Dio".

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