Il poeta non sa far di conto. Ha il carpe diem che gli scorre nelle vene. Vive alla giornata. Sgraffigna un po' qui e un po' là. Può amministrare miseria e miliardi con la stessa disinvoltura. Frequenta pendagli da forca e nobiluomini col medesimo doveroso distacco. Non gli parlare né di aritmetiche né di geometrie. L'unica unità di misura che conosce è lo "scalenofidiaco".
Di fronte a tanta libertà il sistema s'inceppa, perde colpi, balbetta: sa d'avere un nemico da combattere. Ma non sa esattamente come. Perché il poeta è solo un granello di polvere, è vero, una piccola imperfezione, ma mette in pericolo l'intero ingranaggio del potere. Vero è anche che il destino del poeta è quello di un eterno deviante. Emblematica la sentenza di Baudelaire: "Esule sulla terra, fra grida di scherno, le sue ali da gigante gli impediscono di camminare".
Prendi François Villon. Molte delle sue opere le ha scritte nel buio di una cella. Malfattore irridente e bardo maudit, "Il testamento" e "La ballata degli impiccati" li ha creati mentre era in galera. Come pure ce lo immaginiamo fra le tetre mura, mentre scrive uno dei versi più leggendari e leggeri della storia della letteratura: "Mais où sont le neiges d'antan?" (Ma dove sono le nevi d'un tempo?). Quattro volte arrestato per quelli che oggi chiameremmo "comportamenti violenti", fu perfino condannato a morte. Ventiquattrenne aveva ucciso un prete nel corso d'una rissa. Infine, dopo l'ennesima zuffa cruenta in cui rimane coinvolto, viene nuovamente condannato all'impiccagione. Va via da Parigi. Ha 31 anni. E' l'8 gennaio del 1463. Di lui non si hanno più notizie.
"Qui giace e dorme in questo solaio,
Dallo strame d'amor trapassato,
Un povero piccolo scolaro,
Che François Villon fu chiamato.
D'un po' di terra mai fu dotato.
Tavole, trespoli, pane, cesto,
Ognun lo sa, egli tutto ha donato".
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