Raccontare se stessi sembra la cosa più semplice del mondo. Non è così. In Festa mobile Hemingway dà il suo consiglio per iniziare a scrivere un romanzo: "Tutto quello che dovete fare è scrivere una frase vera. Scrivete la frase più vera che sapete". Sembra la cosa più semplice del mondo. Non è così.
Rousseau si spinge molto più in là e, all'inizio delle Confessioni scrive: "M'impegno in un'impresa senza esempio, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest'uomo sarò io". Salvo poi qualche inevitabile "licenza poetica"... "Licenza" che Jean Guéhenno "assolve" con queste parole: "Nessuno, è certo, potrebbe sopportare tutta la verità su se medesimo. La sincerità non è la verità".
Eppure è quello che fa il poeta. Non può farne a meno. Il poeta sopporta tutta la verità su se stesso. Se ne nutre. E se non facesse così, i suoi versi suonerebbero come una moneta ciaccata. Nel suo caso, la sincerità coincide con la verità. E mentre gli altri, i ragionieri, i cassieri appartenenti al regno animale, se ne stanno stravaccati sulla vita come su un comodo divano, il poeta soffre, si dispera, come se fosse costretto su un letto di spine, proprio perché di questa esistenza non ci capisce niente. Per lui la vita è come uno di quei disegni di Escher, una di quelle "trappole" sofisticate senza inizio né fine, di fronte alla cui comprensione la mente vacilla. Ecco perché il canto del poeta è sempre il racconto innocente di una "stagione all'inferno". L'impareggiabile Leopardi ha scritto:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
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