È notte. Il poeta guarda la luna di traverso e canta. C'è vento. Una finestra sbatte. Il vetro si rompe. E una grossa scheggia cade e si va a conficcare sulla sommità del cranio del poeta. Come un'alabarda di cristallo, come una vendicativa ascia di ghiaccio. Il poeta non si accorge di nulla e continua a comporre. "Del colpo non accorto...". Ma l'esagerata ingratitudine dell'ego non risparmia nemmeno la più incurabile delle anime. Una raggio lunare si specchia nei frammenti del vetro caduto. E il poeta si specchia frammentato in essi. E nel tormento di quella visione frantumata, la pretenziosa domanda del poeta è sempre la stessa: potevi fare di più? Ma anche la risposta è sempre la stessa: non c'è ferita che non aiuti a morire. Sì, vorrei dire io al poeta, la scaltra dimensione del finire non metamorfizza nostalgie. Qui non ci sono mostri, nudità divorate che ti fanno vincere alla lotteria. Qui, caro il mio poeta, puoi vincere solo denaro fuori corso, desideri che si polverizzano al contatto col respiro, vestiti per cadaveri. Qui, ci giochiamo l'immediato. L'immediato che risplende come l'opaca meraviglia.