"La vera sfida per uno scrittore - ha scritto Calvino - è parlare dell'intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d'allucinazione, come è riuscito a fare Kafka".
Ho ripensato a queste parole, leggendo "I racconti" di Daniele Del Giudice (Einaudi, pp. 225, 19 euro). Perché è proprio lui che più d'ogni altro ha mostrato di accettare la "sfida" di cui parla Calvino.
Il libro raccoglie tutti i suoi racconti usciti in volume più alcuni meno noti, fra i quali due inediti. In questa raccolta - che evidenzia quanto la misura breve appartenga alla sua voce - si delinea quella sorta di ricerca evocativa, prima ancora che narrativa, di De Giudice; una ricerca che non può sfuggire a chi ha letto i suoi romanzi, dallo "Stadio di Wimbledon" del 1983, ad "Atlante Occidentale" ('85), da "Nel museo di Reims" ('88), fino a "Staccando l'ombra da terra" del 1994.
È nei racconti - ed è bello leggerli o rileggerli adesso secondo un piano unitario - che Del Giudice raggiunge una tale cristallinità lessicale da trasferire all'atmosfera di ciascun componimento un carattere di onirica glacialità, una chiarezza e di struttura e di parola, che finisce con l'affondare ogni storia in una dimensione innaturale, quasi spettrale. Se la sequenza incalzante dei racconti è costruita per avere un indubbio coinvolgimento affabulatorio, non sbaglierebbe comunque il lettore che andasse a cercare, in ognuna delle storie, un segreto rimando metaforico. D'altra parte, lo stesso Del Giudice ci avvisa: "Il volo migliore è senza dubbio quello della mente, non richiede mezzi di trasporto sofisticati né brevetti o abilitazioni, ma soltanto l'attitudine a essere piloti di se stessi, della propria fantasia".
Un libro prezioso. Di un classico dei nostri giorni. Come avere sempre accanto la voce di un amico che ci dice in modo così naturale e così profondo come stanno le cose.