Il protagonista dei romanzi di Don DeLillo è un Odisseo postmoderno che si aggira instancabile per i labirintici paesaggi del nostro tempo, gli abissi più oscuri delle nostre stagioni, come un testimone onnivoro, affamato di umanità. Nell’Uomo che cade lo abbiamo pedinato mentre seguiva se stesso fra le rovine della Manhattan offesa dall’oltraggio alle Twin Towers, mentre si addentrava sgomento nei pallidi rigori della vita. In Cosmopolis era il giovane miliardario figlio della new economy che cerca in una sola lunga giornata verso la notte l’unica risposta che conta sulla propria esistenza e sul proprio bisogno di autodistruzione attraverso le mille luci di New York, spietate luci. E ancora in Underworld (con l’ambiziosa e virtuosistica ricostruzione di almeno tre generazioni che giocano a baseball sul pianeta-Bronx), ne I nomi, in Punto Omega, come nella vertiginosa collana di racconti de L’angelo Esmeralda, il protagonista è sempre lui, un Ulisse, smarrito ma nel contempo lucido, armato del proprio sguardo affamato.
Lo incontriamo di nuovo adesso in “Zero K” (Einaudi, pp. 240, euro 19), instancabile viaggiatore intimo e riflessivo che s'affida ai propri occhi per capire, per andare oltre: “... io lo so che il nervo ottico non mi sta dicendo tutta la verità. Quello che vediamo sono solo indizi. Il resto è una nostra invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale...”. In “Zero K”, si chiama Jeffrey Lockhart e lo incontriamo mentre si reca a dare l’ultimo saluto al padre sessantacinquenne Ross e alla giovane moglie molto malata Artis. Ross è ricchissimo e ha finanziato Convergence, un centro ipertecnologico con una futuristica sede ultrasegreta nel deserto fra il Kirghizistan e il Kazakistan – ancora una volta tornano i paesi dell’est più estremo, luoghi misteriosi che molto affascinano la ricerca estetica di DeLillo – centro in cui grazie alle ricerche biomediche e alle diavolerie informatiche si possono conservare i corpi e le coscienze fino al giorno in cui la medicina potrà guarire ogni malattia. A Convergence si sono affidati sia la terminale Artis che Ross incapace di continuare a vivere senza l'amata compagna. “La storia è nei tumuli. Siamo al di fuori dei confini ultimi. Stiamo dimenticando tutto quello che sapevamo”.
Jeffrey Lockhart si trova immerso in questi confini ultimi per dire addio al padre e ad Artis, un addio che le parole, solo le parole per ora assicurano sia un arrivederci.
Ancora una volta ritroviamo come in altri romanzi di DeLillo lo scontro generazionale irresolvibile, l’atroce dialogo aperto come una ferita fra padre e figlio: “Mi piaceva leggere libri che rischiavano di ammazzarmi, libri che mi aiutavano a dire chi ero, il figlio che legge quel genere di libri per far dispetto al padre”. Ma ancora una volta DeLillo – il più grande scrittore vivente – ci dà prova della sua ineguagliata capacità di affrontare le profondità inviolate di un tema estremo, anzi, del tema estremo. E il suo magistero postmoderno sta nell’affidare al lettore il compito di completare la narrazione. Ecco, il non-detto in “Zero K” è un infinito numero di volte più importante del detto, del pronunziato. Il difficile ma non arduo compito che DeLillo affida ai suoi lettori è quello d’andare a scoprire pagina dopo pagina quel “mistero proteiforme che di volta in volta, semplificando, chiamiamo tempo, identità, linguaggio, memoria, morte”.
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