Italo Svevo quando lesse l'Ulisse per la prima volta commentò con una frase solo apparentemente banale: "Non è per un lettore distratto tale lettura". Ebbene, è così nel caso di Don DeLillo. Il suo lettore dev'essere un po' più attento del lettore comune, dev'essere complice, dev'essere co-autore, deve riuscire a completare il testo. Perché in DeLillo il non-detto, il non-pronunziato, conta più del detto.
Ci sono lettori che amano andare in vacanza quando leggono, il libro per loro è questo. Saltano sulla barca a vela e si lasciano scivolare veloci e silenziosi sul mare ospitale della lettura che hanno scelto. Altri, addirittura, vogliono prendersi una vacanza anche da se stessi, ambiscono a conservare il proprio cervello e la propria coscienza in fondo all'armadio: salgono per il loro viaggio su una nave da crociera, un viaggio da fare in tantissimi senza alcuna possibilità d'annoiarsi, e si abbandonano alla lettura del bestseller che hanno scelto o creduto di scegliere. Il lettore di DeLillo, invece, il viaggio lo fa su una vecchia barca a remi. Se proprio vuole arrivare alla fine del libro deve mettercene di suo, deve remare. Alla fine, una volta sbarcato, sarà più forte. Il viaggio ha irrobustito la sua anima.
Ecco, questo è il fondamento dell'arte postmoderna di DeLillo. La sua capacità di compiere il viaggio con i propri lettori. Ma il cervello del lettore non va in vacanza. Leggendo DeLillo si procura il piacere della convergenza, della condivisione, del completamento. È come se bevesse una pozione miracolosa che rende lui stesso scrittore.
Ma che cos'è un racconto postmoderno? In effetti, il prototipo del racconto postmoderno è quello del grande S. Z., un italiano quindi. Nessuno è stato più efficace e conciso di lui. Per descrivere un amore giovanile, laddove altri avrebbero avuto bisogno di decine e decine di pagine, se non di un intero capitolo o un intero libro, S. Z. impiega poche parole:
"Una volta, a Taranto. Lei doveva essere francese. Ci lasciarono soli in pista".
Ecco, sta al lettore come ebbe a dire Vladimir Nabokov "riempire gli spazi vuoti". È compito suo, del lettore dico, immaginare il racconto. Un'estetica, quella del postmoderno, in effetti, già avviata da altri. Primo fra tutti Samuel Beckett che ne ha dato una versione postatomica, catastrofica, apocalittica. Beckett che per primo ha concepito e idealizzato gli "spazi vuoti" sulla pagina. Basta ricordare la fine di "Malone muore":
"né con la matita né con il bastone né
né luci voglio dire
mai ecco non toccherà mai
ecco mai
ecco ecco
più niente"
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