Sta per esplodere o è già esplosa una cyber-guerra mondiale? Pare che alla domanda abbiano già risposto i terroristi del sedicente Stato islamico, pronti a sferrare la loro sfida anche nel “pianeta digitale”.
A lanciare l’allarme è stato nei giorni scorsi George Osborne, cancelliere dello Scacchiere britannico, secondo il quale i jihadisti oltre a pianificare nuove stragi nelle città simbolo dell’occidente cristiano, stiano tentando di acquisire gli strumenti necessari per lanciare cyberattacchi. Tra i loro obiettivi, neanche a dirlo, ci sarebbero le infrastrutture chiave, dalla rete elettrica ai sistemi di controllo del traffico aereo, dalle banche agli ospedali. Agguati telematici le cui conseguenze, secondo Osborne, si misurerebbero «non solo in termini di danni economici ma anche di perdite di vite umane».
Fortunatamente, per il momento, gli adepti del Califfato (come da più tempo quelli di al-Qaida) si muovono in ordine sparso sulla rete, sfruttando però le potenzialità dei social network per un’incessante opera di proselitismo e per diffondere continue minacce agli “infedeli”. I più esperti riescono a nascondersi nel “deep web” (l’area non raggiungibile da motori di ricerca che sfrutta la rete di anonimizzazione TOR) per comunicare tra loro e arruolare nuovi “combattenti”. E’ così che vengono impartite le istruzioni per fabbricare bombe artigianali e compiere attentanti.
Non è un caso se, subito dopo la strage del 13 novembre a Parigi, sia toccato all’esercito “irregolare” di Anonymous (il collettivo di hacker che ha scelto come simbolo la maschera di Guy Fawkes) rilanciare l’ennesima operazione globale contro i jihadisti del web. Dopo poche ore, gli attivisti digitali hanno annunciato di avere segnalato per la rimozione 5.500 account usati dal cosiddetto Stato Islamico. Un segnale importante ma molto limitato se si considera che i fanatici della “guerra santa” con un loro profilo su Twitter sarebbero oltre 46mila. Probabilmente dovremo attendere qualche anno, invece, affinché ci vengano narrate le gesta di Anonymous e di altri attivisti indipendenti nelle loro incursioni tra i bit clandestini del “dark web”.
In realtà, rispondiamo alla domanda iniziale, la “guerra mondiale” su internet è già in atto da molti anni. E tra gli schieramenti più accaniti in campo, come è naturale che sia, ci sono Washington, Pechino, Mosca, Teheran… e via belligerando. Tra gli episodi più noti del conflitto telematico, c’è sicuramente il sabotaggio nel 2006 della fabbrica di arricchimento dell’uranio a Netenze, in Iran, dietro il quale ci sarebbero Stati Uniti e Israele. Un virus riuscì a compromettere il sistema informatico facendo tornare indietro di almeno due anni l’evoluzione tecnologica del laboratorio iraniano.
Gli Usa entro il 2018 contano di arruolare 6.200 uomini nel cyberspazio, e la Cina ha ammesso di avvalersi da tempo di tre unità di programmatori per sviluppare “armi digitali” e condurre attacchi sulle reti informatiche.
E l’Italia? Ieri sera il premier Matteo Renzi, dichiarando che il governo intende incrementare gli investimenti destinati alla cyber-sicurezza, ha di fatto ammesso l’impreparazione del nostro Paese. Un’arretratezza che non stona con il confusionario contesto europeo, ancora privo di un ordinamento legislativo unico e coerente (le discrepanze normative tra gli stati membri provocano anche una pesantezza burocratica e, di conseguenza, enormi danni nel settore commerciale).
Un ritardo ingiustificabile. Così come accade nel “mondo reale” con il delirante assalto dei “foreign fighter”, anche nel “pianeta digitale” non esistono più guerre di retrovia.
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