È difficile da credersi, ma la parte di internet raggiungibile da Google rappresenta soltanto il 4% dei contenuti della rete. Solo la punta di un gigantesco iceberg la cui massa sommersa affonda nel controverso, e ai più ignoto, “deep web”. Un universo parallelo in cui si muovono, grazie all’anonimato garantito dai software come Tor, terroristi, trafficanti di armi e di droga, truffatori e ogni altro genere di marioli “digitali”. E sulle tracce invisibili (ma non troppo) di questa orda di fuorilegge, ci sono ogni giorno uomini dei servizi segreti, agenti della polizia postale e organizzazioni di attivisti (Anonymous è l’esempio più significativo) che conducono la loro sfida “sotto traccia” contro l’illegalità che regna nel web “nascosto”. È sbagliata, però, anche la convinzione diffusa che la Rete “sommersa” sia esclusivamente lo scenario di una misteriosa guerra tra guardie e ladri o l’eldorado della pedopornografia (quest’ultima rappresenta “solo” il 4% dei contenuti). L’anonimato, infatti, come sostiene a gran forza il Centro Hermes (da anni in prima linea nella battaglia per la “Trasparenza e i diritti umani digitali”), è uno strumento fondamentale per la libertà di informazione ed espressione. Il “deep web” in paesi come Cina, Russia e Turchia è l’unico mezzo che possa garantire a giornalisti, attivisti e organizzazioni Ong la diffusione di informazioni considerate “scomode” dai regimi dittatoriali in cui operano. Ma oggi, con il dilagare del terrore scatenato non solo dall’Isis, anche nei paesi occidentali la libertà dei cittadini è una sfera in bilico costante sul confine sottile che separa privacy e sicurezza. L’ultimo esempio è la proposta di legge con la quale in Francia si vorrebbe inibire, durante lo stato di emergenza per il terrorismo, la comunicazione attraverso il browser Tor (il “veicolo” principale dell’internet “invisibile”) e l’uso degli hotspot wi-fi pubblici. Una soluzione drastica che fa il paio con la scriteriata ipotesi di chiudere le frontiere a migliaia di profughi disperati.
Tutto per la vana illusione di fermare l’arrivo dei combattenti dello Stato islamico per poi scoprire, come nel caso emblematico dei “foreign fighter”, che il terrorista è un vicino di casa nato e cresciuto accanto a noi.
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