“Il web è morto”. Così nell’estate del 2010 la rivista Wired sentenziò in copertina il declino dell’internet primordiale, una prateria sterminata priva di regole e da percorrere in piena libertà. Quella che sembrò ai più una provocazione, oggi appare come una visione lucida della metamorfosi che ha spostato la quasi totalità degli utenti non solo verso i cellulari, ma soprattutto all’interno di “recinti” di app e social network nei quali la maggior parte dei “navigatori” trascorre il suo tempo online.
A distanza di qualche anno, c’è chi periodicamente riprova a decretare la fine di questa nuova era della Grande Rete, sostenendo che anche Facebook, il più gigantesco di quegli steccati, sia destinato a dissolversi entro pochi anni. Ipotesi assurda e priva di fondamento se si guardano i numeri, ma da non escludere se si pensa che un quinquennio del pianeta digitale equivale a un’era geologica. Nel giugno scorso la piattaforma di Menlo Park ha superato i due miliardi di utenti attivi mensilmente e, alla luce dei fatturati stellari e di una crescita annua spaventosa, c’è chi a Wall Street è pronto a scommettere che le entrate si impenneranno in media del 25% l’anno fino al 2020.
Di contro, nato come “libro delle facce” degli studenti di Harvard, il social fondato da Mark Zuckerberg è sempre meno amato proprio dai più giovani, quei “millennials” che fuggono verso lidi più adatti alle loro esigenze come Snapchat e Instagram (quest’ultimo acquistato da Facebook Inc. nel 2012 per un miliardo di dollari) e lontani dagli sguardi dei genitori. Il 2016, inoltre, secondo eMarketer ha segnato per la prima volta un calo dell’utilizzo da parte di tutti i “gruppi di età”.
Piuttosto che concentrare gli sforzi sulla qualità dei contenuti (le “bufale” sono ormai capaci di condizionare anche l’esito dei risultati elettorali), il “colosso blu” ha tarato i suoi algoritmi più che altro sullo sfruttamento a fini commerciali dei dati personali, lasciando invadere infine la prodigiosa piazza virtuale dalle bancarelle di un chiassoso mercatino dell’usato. Risulta grottesca, quindi, la contraddizione di chi, celebrato filantropo, mercifica la privacy come principale fonte di guadagno, mettendo a disposizione delle aziende gli interessi e le passioni delle persone (spesso ingenue o inconsapevoli come dimostra l’esito di una class action del 2009).
Tutto questo, ciliegina sulla torta, con Bruxelles alle calcagna per una presunta elusione fiscale a nove zeri. E chissà se, alla lunga, proprio l’asteroide tributario non risulterà fatale per il dinosauro californiano.