«È necessario adottare una sola idea, un unico simbolo - scrisse Joseph Goebbels - e soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali». Su questo principio semplicissimo, il ministro della Propaganda del Terzo Reich basava la sua diabolica “ingegneria del consenso”. Prendeva forma allora quella ben congegnata “fabbrica” di diffamazione e criminalizzazione che oggi lascia il posto alla cialtronesca giostra delle fake news, capace secondo molti osservatori di orientare l’opinione pubblica grazie a un controllo sistematico dei “dati personali” e alla pervasività dei social network.
Ed ecco che le “bufale” in questa cyber-guerra senza confini, diventano le “bombe a grappolo” da sganciare sulle certezze già consolidate, per tenere acceso il fuoco dell’odioso esercito di “haters”, o per far vacillare le convinzioni dei cittadini non “allineati”.
L’ultimo caso emblematico è quello della falsa pagina di “Lara Pedroni” smascherata dal “cacciatore di bufale” David Puente, che nel suo blog ha smontato uno per uno i post e la stessa identità della sedicente “impiegata” dell’Università di Pisa (le foto del suo profilo in realtà sono state “rubate” dall’account Instagram di una ragazza inglese di nome Jezebel Alice Stewart Ellwood ). Tutte immagini sparite dal web insieme con i post “incriminati” quando l’esperto autore (o autori) di questo fiume di menzogne ha capito che la sua macchina del fango è stata scoperta e sbugiardata. Un’attività di diffusione “ben ponderata”, spiega Puente, “infatti 'Lara' ha condiviso i meme nei gruppi Facebook adatti a quel tipo di contenuto”.
La strategia, che scopiazza (speriamo inconsapevolmente) il proselitismo nazista, è quella di identificare diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo, attribuendogli frasi talmente ripugnanti da apparire spesso inverosimili. Affermazioni che vengono imputate ora a Saviano (il simbolo dei “buonisti”, come viene irriso chi si ostina a difendere i diritti umani, avrebbe affermato di preferire i rifugiati ai “terremotati italiani piagnucoloni e viziati”), ora a Cecile Kyenge (la “straniera immigrata”), rea di aver espresso il (surreale) desiderio di “trasformare tutte le chiese cristiane in moschee”. Solo falsità che, direbbe Hannah Arendt, risultano persuasive anche se banali come solo il male sa essere.
In questa realtà ormai inquinata dai professionisti della disinformazione, sarebbe auspicabile una regolamentazione più stringente contro le manipolazioni in rete, obbligando, ad esempio, i social network a verificare tutti i profili degli utenti come già avviene per gli account bancari (un meccanismo che Twitter ha già annunciato di voler attivare nei prossimi mesi). La sfida, però, è davvero irta di ostacoli, perché si corre il rischio di trasformare la “prevenzione della menzogna” in una nuova opprimente forma di censura.
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