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Boscia Tanjevic emozione pura «La mia vita per i giovani»

«Il campo e l’allenamento ora un po’ mi mancano, ma dopo aver detto basta non avrò ripensamenti»

Boscia Tanjevic non è solo il Basket dell’ultimo mezzo secolo. Con lui ci si ritrova a parlare proprio di tutto perché il 71enne coach è cultura e curiosità allo stato puro. Un fine intellettuale che se non si fosse innamorato dello sport, sarebbe stato un grande giornalista o un professore d’università.

E così, in una chiacchierata che vorresti non finisse mai, si passa dal fenomeno sloveno Luka Doncic, appena scelto col numero 3 nel draft Nba e già campione di tutto a 19 anni, a “Cent’anni di solitudine” proseguendo con la guerra in Siria e la crisi globale, prima di tornare agli amati canestri con aneddoti e storie di vita sempre caratterizzati da un tratto ben marcato di umanità.

Chi ha il privilegio di poter ascoltare un personaggio di tale prestigio che come pochi ha segnato e influenzato, a livello internazionale, uno sport così bello e popolare, ne esce arricchito e impara.

Boscia Tanjevic, da una stagione direttore tecnico delle Nazionali italiane, è la bella persona di sempre. Diretto, chiaro, pungente, vero, mai banale. Va al cuore del problema senza girarci mai intorno.

Dopo aver guidato il Montenegro agli Europei 2017, ha detto basta. E la sua presenza su qualsiasi panchina del continente manca a noi appassionati e, adesso, forse, anche un po’ a lui. «Dopo tanti anni lontano da casa, soprattutto durante la lunga esperienza in Turchia, adesso mi godo la famiglia nella “mia” Trieste. Avevo in mente di smettere già nel 2015, quando è arrivata la chiamata del Montenegro, Paese nel quale sono nato, che mi ha coinvolto in una serie di progetti, fino ad affidarmi la Nazionale per gli Europei. Al termine ho preso la decisione definitiva».

– Sì, ma dopo il recente ritorno in panchina di Julio Velasco (a Modena) e Ratko Rudic (Recco), coach stranieri diventati come lei italiani e che come lei hanno portato lo sport azzurro a toccare l’apice, un po’ di nostalgia non le è venuta?

«Confesso di sì, perché il campo e l’allenamento quotidiano mi mancano. Però, prima e dopo il Montenegro, avevo già rifiutato proposte molto interessanti e sono convinto che non avrò ripensamenti. Del resto ho sempre avuto la necessità di esprimermi in contesti a me graditi, costruendo sin dall’inizio una squadra con tanti giovani. E adesso non è più possibile».

– Il visionario Tanjevic e i talenti da lanciare: l’indissolubile binomio di tutta una carriera.

«È stato soprattutto bello immaginare la loro crescita, provando a capire cosa potevano diventare e quale livello avrebbero potuto raggiungere con il duro lavoro in palestra e le continue prove in partita. Coraggio, intuizione, aiuto: i giovani con il loro impegno non mi hanno mai tradito».

– E oggi?

«Vorrei che avessero grande senso di appartenenza ed entusiasmo, pensando di meno ai soldi perché giocare è una magia. Com’è sempre piaciuto a me. Perché la vita è un sogno che deve spingere i giovani, non solo quelli che praticano sport, ad atterrare più in alto possibile. Oggi, invece, è tutto più difficile e non è come una volta quando c’era un cartellino che ti vincolava. I procuratori imperano, disturbano e un allenatore è spesso in terza fila. E non va bene perché a prevalere devono essere i legami affettivi e l’umanità».

– Quante emozioni per lei in pochi giorni: prima la promozione di Trieste in Serie A, poi l’arrivo in città della Nazionale che giovedì 28 affronterà la Croazia nelle qualificazioni ai Mondiali 2019.

«Sono diventato un tremendo tifoso di Trieste che dopo tanto tempo è tornata in A. Stimo parecchio coach Dalmasson. Moralmente e per come conduce la squadra: è stato il vero artefice. Non è un caso che l’ho nominato allenatore dell’Under 20».

– Poi c’è l’azzurro e l’emozione resta forte...

«È bello vedere questo gruppo all’opera, anche se Sacchetti si trova di fronte a un compito non facile. Non solo le rinunce di Gallinari, Belinelli e Datome, ma anche i problemi fisici di Gentile, Pascolo e Flaccadori lo privano di pedine importanti, mentre la Croazia, che deve vincere a tutti i costi, ritrova alcuni giocatori Nba. Mi piace tanto la scelta di portare in raduno il 17enne Nico Mannion: Meo crede che possa già giocare a questo livello».

– E l’esperienza come direttore tecnico?

«Il bilancio è positivo. Sono un consigliere delle squadre giovanili e, ad esempio, è stato importante introdurre la Nazionale Under 14 affidata a un grande lavoratore come Gregor Fucka, mentre nel settore femminile mi facilita che in panchina ci sia un tecnico come Marco Crespi».

– Lei in un decennio di permanenza alla guida della Nazionale e del Fenerbahce ha cambiato il volto cestistico della Turchia. E lo storico argento ai Mondiali 2010 è stata la molla che ha anche consentito al campionato di diventare uno dei migliori d’Europa.

«Nel club avevo 6 giocatori di 20 anni diventati tutti campioni. Ho lanciato Enes Kanter (la stella dei Knicks, ndc) quando era appena 16enne, ma anche Ersan Ilyasova. Ho cresciuto e dato fiducia a tanti giovani. L’amore e l’orgoglio della Turchia nei miei confronti non l’ho mai riscontrato da nessun’altra parte. Ho anche deciso di operarmi lì quando mi colpì la malattia».

– In A2, il vero campionato italiano, ci sono diversi ragazzi di buon talento che non trovano un posto al piano di sopra in quanto occupati da più di uno straniero non all’altezza.

«Hai detto tutto tu».

– E, invece, com’è lo stato di salute della Serie A?

«Non sono un grande estimatore di una competizione squilibrata, con un club che ha oltre 25 milioni di euro di budget e che si confronta con altri che ne hanno 3-4 forse 5. Ci sono troppi stranieri, alcuni davvero di scarsa qualità. La mia formula ideale? Due stranieri e dieci italiani. È una questione di matematica e mi spiego. Quando anni fa le regole erano unificate e si giocava con due soli stranieri, la Serie A era la migliore d’Europa e la più ricca. La legge Bosman ha rappresentato una ferita mortale per lo sport e l’Italia del basket non è riuscita a sottrarsi alle conseguenze. C’è stata l’invasione dall’estero, la crisi economica internazionale ha ovviamente fatto il resto, coinvolgendo il Paese e il nostro settore e il risultato è che il campionato italiano, come valore, adesso sarà il sesto-settimo in campo continentale. Prendiamo la Turchia: quando sono arrivato io c’era l’obbligo di tenere sempre in campo minimo due turchi. La Nazionale ne ha beneficiato, ha ottenuto grandi risultati e sono emersi, uno dietro l’altro, fior di giocatori. Adesso con l’apertura pressoché totale, anche la Nazionale ne ha risentito a livello di piazzamenti».

– Il basket europeo resta, comunque, uno spettacolo meraviglioso...

«La Final Four di Eurolega è di enorme bellezza ed io guardo con maggiore piacere il basket europeo, coppe in primis, rispetto alla Nba. Doncic? Un talento raro, come lui ne nasce uno ogni 15-20 anni. Ha qualità emotive e caratteriali incredibile per un atleta della sua età. Mi dispiace che vada subito nella Nba: fossi stato in lui, per migliorare ulteriormente, sarei rimasto altri due anni in Europa. Dove la qualità degli allenamenti è ben altra cosa, come le difese, e ogni possesso è una questione di vita o di morte. Viceversa in America è più semplice, le regole aiutano e le difese non sono asfissianti».

– Il 2019 sarà l’anno degli anniversari speciali: 40 anni dalla storica Coppa dei Campioni vinta con il Bosna Sarajevo e 20 dal trionfo con l’Italia agli Europei di Parigi. Cosa le hanno lasciato?

«Amore, familiarità, rispetto: il più grande regalo che potessi ricevere da ragazzi che sono sempre nel mio cuore e che hanno arricchito la mia vita».

– Tutte le volte che io e lei parliamo, si finisce per ricordare Mirza Delibasic – inimitabile talento della Jugoslavia degli anni ‘70 e ‘80 – probabilmente il giocatore-simbolo della sua carriera...

«Sì, l’ho amato più di ogni altro. Poteva farne 40 a partita e invece nella finale di Coppa del 1979 con altruismo ci guidò al successo, aiutando lo scatenato Varajic autore di 47 punti. Aveva una cultura pazzesca che lo portava a comprendere il mondo. Amava i libri, leggeva Gabriel Garcia Marquez. Se n’è andato via troppo presto, a 47 anni come Cosic, un segno del destino che ha accomunato due miti».

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Un glorioso palmares: ha guidato quattro nazionali

Bogdan “Boscia” Tanjevic è nato 71 anni fa in Montenegro. Già nel 1974 vinceva con la Jugoslavia l’oro europeo Under 18.

Il primo grande trionfo è la Coppa dei Campioni nel 1979 con il Bosna Sarajevo battendo in finale Varese («Un’impresa simile a quella del Leicester»). Due anni più tardi con la Jugoslavia conquista l’argento europeo.

Nel 1982, voluto da Maggiò, sbarca a Caserta. Nella squadra di Oscar, lancia Nando Gentile e Esposito.

Poi la lunga parentesi a Trieste (dove scopre Bodiroga) e lo scudetto a Milano nel 1996. Dal 1997 al 2001 allena l’Italia che guida al trionfo europeo nel 1999.

Nel 2002 vince il titolo francese col Villeurbanne, poi comincia la decennale esperienza in Turchia tra Fenerbahce e Nazionale che trascina allo storico argento ai Mondiali 2010. Chiude la carriera nel 2017 con il Montenegro agli Europei.

«Quando culo mangia pigiama» è forse la sua frase più famosa per definire una situazione di paura o tensione nelle fasi decisive.

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