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Il mio premio? La scelta di Moretti. A colloquio con Nevo, dal suo bestseller è tratto "Tre Piani"

«Il mio premio più grande? Il fatto che Nanni Moretti abbia scelto di portare al cinema “Tre Piani”. Sedersi in mezzo al pubblico, poter guardare i miei personaggi e le mie storie prendere vita è una grandissima emozione». Parola dello scrittore israeliano Eshkol Nevo che in questi giorni sta seguendo in Italia l’uscita in sala del film diretto da Nanni Moretti, tratto dal suo omonimo bestseller, pubblicato da Neri Pozza (traduzione di Ofra Bannett e Raffaella Scardi).

Nevo, 50enne, conduce il lettore in Israele, nei pressi di Tel Aviv, dove si trova una tranquilla palazzina borghese di tre piani. L’aspetto è ordinato, la quiete regna sovrana ma dietro quella patina di perfezione l’autore de “L’ultima intervista” e “La simmetria dei desideri” descrive la vita di tre famiglie traendo spunto dalle tre diverse istanze freudiane della personalità – Es, Io, Super-io – inoltrandosi nel cuore delle relazioni umane, zigzagando fra colpa, perdono, trasgressione e pentimento.

Partendo dalla pagina, Moretti – con un cast formato da Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Tommaso Ragno, Anna Bonaiuto e Riccardo Scamarcio – ha scelto di traslare la storia da Israele al quartiere Prati di Roma, in un contesto altoborghese, un coacervo di emozioni contrastanti che ha già convinto la critica internazionale. Nevo, con la terza dose del vaccino già fatta, parla di Israele e si racconta ai lettori della Gazzetta.

Che emozioni ha provato all’arrivo del film nelle sale?
«Non vedevo l’ora che il film giungesse sino al pubblico. A Cannes, seduto in mezzo ad altre duemila persone, come scrittore è stata un’esperienza rara».

Perché?
«Quando scrivo non posso seguire i miei lettori per vedere cosa provano sfogliando le pagine, ma stavolta ho potuto seguire le scene, mi sono goduto l’attaccamento del pubblico verso Nanni e quell’ovazione di undici minuti che gli è stata tributata in Francia. Dalla pagina al cinema mi ritrovo dentro un’esperienza senza intermediari, i miei personaggi prendono vita e io posso godermi le reazioni del pubblico».

Deluso dalla mancata vittoria della Palma d’Oro?
«Non scherziamo, mi sento fortunato. Chi fa arte, chi scrive, agisce per un bisogno che sente dentro, non per i premi. Il fatto che un regista del calibro internazionale di Nanni Moretti abbia scelto il mio libro è il premio più importante al mondo».

Ha detto che la prima volta che ha visto il film lo ha fatto ponendo attenzione alle sfumature e la seconda volta si è commosso. La terza volta com’è andata?
«Mi sono goduto davvero la pellicola. Penso che Moretti abbia trovato fra le pagine qualcosa che lo ha toccato nell’intimo, tanto da spingerlo a farne un film. Ecco cosa intendo parlando di arte. Sa, uno scrittore è una specie di incrocio fra una spia e un cacciatore, per questo motivo durante le proiezioni seguo con attenzione i volti degli spettatori».

Moretti ha traslato la narrazione da Israele a Roma. Le storie non hanno confini?
«Io avevo immaginato una piccola palazzina nella periferia, invece sullo schermo c’è un contesto molto più agiato e sono tutti vestiti con classe! Ma non le mentirò, i confini esistono eccome, però, se il primo adattamento dei miei libri sul grande schermo è stato realizzato in Italia non credo sia un fatto casuale: le nostre culture si toccano e c’è grande affinità nei sentimenti».

Quando accostiamo lo sguardo alla serratura cosa scopriamo, l’Altro ci incuriosisce o ci fa sempre paura?
«C’è una differenza sostanziale fra scrittori e giornalisti: io uso l’immaginazione per scoprire gli stati d’animo delle persone, voi avete bisogno di andare a bussare alle porte. A Cannes sono stato riconosciuto da una lettrice, mi ha fermato dopo la proiezione e mi ha detto: “credevo di essere sola con le mie paure ma adesso so che non è così”. Ecco cosa accade quando buttiamo giù le pareti, scopriamo che condividiamo tutti le stesse speranze e gli stessi timori».

Proprio Israele è all’avanguardia nella lotta alla pandemia con la vaccinazione di massa. Come si sente?
«Ho già fatto il terzo richiamo, penso che sia l’unione di due fattori, da una parte il nostro attaccamento alla vita, dall’altra una smaccata propensione verso l’innovazione. Ci siamo fatti trovare pronti a rischiare, per ricominciare a vivere. Il Covid ci ha rinchiuso tutti in casa, dentro i nostri stessi confini, e in Israele è stata un’esperienza claustrofobica all’ennesima potenza».

Pensa che l’emergenza sia finita?
«Spero sia passato il momento più duro ma dobbiamo convivere ancora con l’incertezza. Però il tema Covid non mi appassiona, lo lascio volentieri ai virologi, preferisco occuparmi di arte e sentimenti».

A Roma ha visitato il ghetto ebraico?
«Certamente, sono andato con la mia famiglia che mi accompagna in questo viaggio. Siamo rimasti sorpresi e affascinati dal fatto che nel cuore vecchio di Roma ci fosse un luogo che parlasse di casa nostra, fra tradizione e contemporaneità. Sa, quando sono in Israele non rifletto sul mio ebraismo ma quando mi trovo all’estero l’appartenenza diventa un tema assai importante».

Moretti l’ha convinta più come regista o come attore?
«Nanni è una persona molto sensibile, ha infuso nel film la stessa sensibilità in entrambi i ruoli, ciò lo rende unico. Ha preso la storia del terzo piano, il ruolo più difficile, antipatico e divisivo, entrando nei panni di Vittorio con grande sensibilità, un giudice molto severo che metterà il pubblico davanti ad un dilemma etico».

In Tre piani i personaggi sono pieni di difetti, o, per meglio dire, sono umani. Che rapporto è nato sulla pagina?
«Per la prima volta non c’è stata un’immediata empatia e talvolta avrei voluto fermarli, evitando che si cacciassero nei pasticci. Chiaramente, non vorrei mai essere Arnon (il protagonista della storia del primo piano, ndr) ma l’importante è che io lo capisca, intimamente. A tal proposito, Riccardo Scamarcio che interpreta Arnon/Lucio è stato perfetto, odioso e ammaliante. Non avrei potuto chiedere di meglio».

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