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Dieci minuti dopo la scossa ruggì anche il maremoto - Il terremoto di Messina e Reggio del 1908

Tre grandi onde anomale che raggiunsero i dieci metri. Le devastazioni maggiori si registrarono soprattutto lungo la costa calabrese

Riproponiamo un articolo tratto dall'inserto speciale pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 28 dicembre 2008, in occasione del centenario del terremoto del 1908 di Messina e Reggio Calabria.

L'intero speciale, a cura di Anna Mallamo, è disponibile qui.

 


 

 

Dopo circa dieci minuti dal terremoto, le acque dello Stretto si ritirarono e si rovesciarono di colpo, con incredibile violenza, in tre gigantesche ondate, sulle rive siciliane e calabresi, aggiungendo distruzione a distruzione.

A MESSINA, le acque, provenienti da Sud Est, sorpassarono la bassa spianata di San Raineri e si riversarono nel porto, dove le imbarcazioni – le navi mercantili, le siluranti, le barche, i pontoni carichi di merci – ruppero gli ormeggi e furono spinte le une contro le altre. Nel bacino di carenaggio la violenza del maremoto sfondò la porta e trascinò fuori il bastimento che si trovava nella vasca: la nave naufragò lì accanto, nei pressi dell’edificio. L’ondata maggiore sarebbe stata alta circa 2.90 metri, le altre due circa 2.55 e 2.15 metri.

Con violenza ancora maggiore le ondate percossero il litorale nord di Messina: a PACE l’ondata più alta avrebbe raggiunto i m. 4.7; a PARADISO m. 3.70. Un pescatore, che si trovava in mare a una ventina di metri dalla costa, raccontò d’aver sentito un fortissimo urto alla barca e d’aver osservato, con orrore, che le acque si ritiravano, fino a che l’imbarcazione non restò in secca. La abbandonò e fuggì a piedi verso la riva, ma fu travolto da una furiosa ondata che solo per miracolo non lo uccise.

Lievi invece gli effetti a TORRE FARO, dove la spiaggia fu invasa per oltre cinque metri e in seguito si trovarono molti pesci “seminati” dall’onda. All’opposto, l’entità degli effetti fu assai più forte a sud di Messina, raggiungendo un massimo tra GALATI e BRIGA.

Anche a REGGIO le ondate furono tre, di altezza decrescente (tra i 6 e i 7 metri la prima, 4-5 metri la seconda, 3 la terza), accompagnate da un terrificante rombo e precedute dal ritrarsi delle acque. Il capitano Vicari, comandante del piroscafo “Quirinale” anco - rato nel porto di Reggio, raccontò di tre ondate «come montagne d’acqua» che ruppero gli ormeggi della nave e la spinsero prima fuori e poi di nuovo dentro il porto. La Pescheria e il Forte a mare furono distrutti: non ne rimasero nemmeno le macerie, trascinate e inghiottite dal mare. I vagoni ferroviari furono trascinati via e sbalzati altrove, sulla costa.

Ma più a nord della città la violenza del maremoto fu anche maggiore: a PENTIMELE le ondate giunsero fino ai primi vigneti, a GALLICO le ondate raggiunsero i 5 metri e in alcuni punti si inoltrarono a terra per oltre 300 metri, facendo 112 vittime; a CATONA le onde arrivarono a circa 4 metri, mietendo vittime (un cadavere venne trovato in cima a un alto albero). La forza del maremoto andò decrescendo via via, fino a non essere nemmeno percepito nella zona di Bagnara.

Viceversa, dallato opposto della città, danni ingenti furono causati dal maremoto lungo la costa da SAN GREGORIO a CAPO D’ARMI. Le onde invasero e distrussero agrumeti e campi, gettarono con violenza le imbarcazioni a grande distanza dalla spiaggia (barche furono trovate negli aranceti, alcuni cadaveri furono trovati sugli alberi, gli edifici già demoliti dal terremoto furono ulteriormente danneggiati: di alcuni di essi non rimasero che i pavimenti).

In particolare a PELLARO, dove le onde raggiunsero l’altezza di 6-7 metri, distruggendo le case nella zona tra la Fiumarella e la fiumara di Macellari, dove l’acqua arrivò fino alla ferrovia e in alcuni punti la travolse. Il ponte ferroviario sulla Fiumarella – pesante 75 tonnellate e lungo 40 metri – fu divelto e spinto a monte con un estremo a 10 metri dal suo appoggio e l’altro a 38 metri. Un’altra località del Reggino venne colpita con incredibile violenza del maremoto: a LAZZARO esso si presentò come una colossale ondata, che fu definita –nei racconti dei superstiti – «una cupa muraglia con varie lingue», la cui altezza sarebbe stata di 10 metri e che spazzò con violenza tutta la parte inferiore del paese, che ne ebbe distruzioni ancora maggiori che dal terremoto. La morfologia della costa ne risultò cambiata permanentemente: essa arretrò di ben 175 metri.

Le vittime finite in pasto allo squalo

Un macabro ritrovamento ad Augusta

I corpi delle sventurate vittime del maremoto finirono sulle sponde più lontane, trascinate dalla furia delle acque. Ma per alcune di esse la sorte fu ancora, se possibile, peggiore. Il 26 gennaio un peschereccio nei pressi di Augusta, a Capo S. Croce, catturò, dopo un’aspra lotta, un enorme squalo, identificato poi per un “Carcharodon Carcharias”, ovvero uno squalo bianco, del peso di circa 800 chilogrammi.

Nel suo tubo digerente furono trovati, in mezzo ad altro materiale, avanzi di parecchi cadaveri, tra cui certamente resti di un bambino di 5 o 6 anni, di un adulto che indossava un paio di robusti scarponi, trovati quasi intatti e che ancora calzavano i piedi (le gambe erano poco intaccate, così come la testa era riconoscibile) e di una donna adulta, che indossava un abito di tela blu a disegnini, che fu pure ritrovato.

Assieme ai resti umani, nel ventre dello squalo si trovarono anche ossa lunga e cranio di un cane adulto e parecchie vertebre dorsali di un grosso mammifero, probabilmente un bovino. Da subito – dopo che vennero effettuate indagini di medicina forense dal prof. G. B. Ferrando –si pensò che si trattasse di vittime del maremoto, sorprese dalle onde anomale sulla spiaggia o a bordo di qualche piccolo scafo.

Dallo stato di conservazione fu dedotto che non era trascorso molto tempo tra la loro morte e il momento in cui furono inghiottiti dallo squalo. Inoltre, malgrado la permanenza di un mese, i succhi digestivi avevano solo intaccato debolmente le ossa più sottili e tenere. Un macabro ritrovamento si era avuto anche in occasione del terremoto del 1783: il 16 maggio, tre mesi dopo il sisma, a Scilla fu ucciso un grosso pescecane, nel cui ventre furono trovati resti umani ancora intatti e rivestiti degli abiti.

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