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Ore 17,58: la Sicilia cambia per sempre

Quel torrido sabato a Capaci...

La soluzione istituzionale con quattro nomi: Scalfaro, Spadolini, Andreotti, Cossiga. Giuliano Vassalli, giurista ed ex guardasigilli, galantuomo e padre della riforma del codice di procedura penale che aveva introdotto l’avviso di garanzia e il rito accusatorio all’italiana, impallinato da quasi 200 franchi tiratori, da sempre il partito trasversale per eccellenza, secondo Antonio Ghirelli, ex direttore dell’Avanti, ex portavoce del presidente partigiano, Sandro Pertini (allora commentatore ed editorialista del Giornale di Sicilia). Forlani, preso atto della situazione, aveva rassegnato le dimissioni da segretario dello scudocrociato. Il presidente della Repubblica non si riusciva a eleggere. Andato via in anticipo il Picconatore - Cossiga, uomo di tante stagioni, che altre generazioni avevano conosciuto anche con la K iniziale - il Parlamento appena eletto (il 5 e 6 aprile), aveva notevoli difficoltà a trovare il successore del dimissionario e imprevedibile statista sardo. Lui aveva nominato Andreotti senatore a vita, con un gesto di difficile interpretazione: di affetto, di stima (per Belzebù?), secondo alcuni (pochi, in verità); beffardo, affettatamente complice, feroce, secondo altri. E Andreotti, sì, proprio lui, proprio Belzebù, cominciava a farsi strada verso il Quirinale: Scalfaro e Spadolini, presidenti di Camera e Senato, erano soluzioni istituzionali. La soluzione politica - scartato un improponibile bis di Cossiga, che peraltro faceva sempre più simpatia al Msi di Gianfranco Fini - era stata fino a quel momento tenuta seminascosta come tutte le soluzioni «vere»: virava decisa verso di lui, il Divo Giulio.

Certo, infuriava Tangentopoli: il 17 febbraio a Milano l’arresto del Mariuolo Mario Chiesa aveva segnato la fine di quella che per molti era una cinquantennale impunità della politica, il pool di Borrelli e Di Pietro mirava proprio a Dc e Psi. Certo, settantadue giorni prima - il 12 marzo - era finito un altro tipo di intangibilità, a Mondello era stato assassinato Salvo Lima, luogotenente andreottiano in Sicilia e il volto terreo del Divo, al funerale, aveva lasciato capire che se quello era un messaggio spietato, diretto e preciso per qualcuno, quel qualcuno lo aveva recepito in pieno: i colpi alle spalle e alla testa erano stati qualcosa di mai visto, nella politica siciliana e nazionale, la mafia tornava a commettere un omicidio eccellente, sei mesi e mezzo dopo Libero Grassi, un anno e mezzo dopo Rosario Livatino, ma quello era qualcosa di diverso, non era un delitto contro un nemico di Cosa nostra. Era per ciò stesso dirompente: «Ora può succedere di tutto», aveva detto il giudice Falcone, ma lui era a Roma, i suoi (ex) sostenitori gli avevano dato del traditore, prima di andare al ministero della Giustizia del socialista Martelli aveva incriminato un pentito farlocco come Giuseppe Pellegriti, che aveva chiamato in causa proprio Lima per l’omicidio Mattarella... Sì, certo, l’omicidio di via delle Palme era inquietante: Lima stava organizzando il comizio proprio di Andreotti, quel 12 marzo. Il 30 gennaio c’era stata la sentenza del maxiprocesso e stavolta niente insufficienze di prove, condanne quasi tutte confermate, fine dell’impunità. Però la memoria si accorcia, passa presto. E Andreotti, in quel momento presidente del Consiglio, si preparava a salire sul trampolino di lancio, destinazione Colle. Così almeno si diceva. A smentire questa ipotesi l’astrologo Van Wood: le stelle dicono Scalfaro, aveva azzardato.

A Racalmuto un pentito svelava i segreti di mafia, due dentisti, padre e figlio, gambizzati a Catania e un retroscena sull’omicidio (di mafia) di Isidoro Carlino, fratello del sindaco di Misilmeri. Gianluca Vialli si preparava al passaggio alla Juve: in campo i miliardi. E il bruciante attacco di Giuseppe Siragusa: «Il calcio italiano s’ispira a Flaiano: l’insuccesso gli ha dato alla testa».
Il Papa - Giovanni Paolo II, poco più che settantenne - andava nei feudi della camorra sanguinaria, la Pirelli stava per abbandonare lo stabilimento di Villafranca Tirrena, l’Eni presieduta da Gabriele Cagliari si preparava a investire 5000 miliardi in Sicilia, il prezzo delle auto saliva. E poi lo sport: per il Palermo una trasferta da lupi (indovinate dove andavano a giocare i rosa), Totò Antibo - gazzella ferita - preparava le Olimpiadi di Barcellona «per essere protagonista», Jimmy Jimbo Connors era pronto per il Roland Garros. E di nuovo mafia: il pentito Rosario Spatola aveva inguaiato il neo deputato Vincenzo Culicchia (tutto finito in una bolla di sapone).
A Palermo si era bloccato il servizio di notifica delle multe: 50 mila rischiavano di decadere, scriveva Delia Parrinello, ma che bello. Il mercato dell’occulto faceva fortuna in città, una società di via Cusmano forniva maghi a tutto il Paese e chiedeva l’istituzione di un albo professionale. E in tutta Italia ci credevano 12 milioni di persone. Nessuno, però, nemmeno un mago, aveva previsto cosa sarebbe accaduto proprio in quel caldo sabato 23 maggio 1992, quando il mondo cambiò. In Sicilia, a Capaci. Alle 17,58.

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