«I miei allievi hanno tutti un loro profilo specifico all’interno di un sapere e di un metodo condiviso. La mia impronta, se c'è, si esaurisce in un noto obbligo al quale tutti loro sanno di non poter derogare: l’uso dell’accento grafico su sé stesso». Linguista di fama mondiale, accademico della Crusca, membro dei Lincei, Luca Serianni morto oggi a 74 anni per i postumi dell’investimento che lo aveva visto vittima qualche giorno fa a Ostia, scherzava così, schernendosi, con gli studenti e i colleghi professori che riempivano all’inverosimile l’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma per la sua ultima lezione. Era il giugno del 2017, quel suo discorso, durato oltre un’ora come tutte le sue seguitissime lezioni, andò avanti punteggiato da continui, fragorosi, applausi. Ma anche da tante risate, quasi a voler suggellare la cifra di quello che per 38 anni era stato il suo rapporto con gli studenti e con la disciplina, amatissima, che insegnava, argomento dei suoi infiniti studi e di tanti libri, dalla Grammatica italiana Utet alla Storia della lingua italiana pubblicata da Carocci, da Un treno di sintomi (Garzanti) a Parola (2016) solo per citarne alcuni, oltre naturalmente al dizionario Devoto-Oli curato con Maurizio Trifone, agli scritti su Dante. «Chi ha scelto di fare l’insegnante ha scommesso sui propri scolari», sottolineava ancora in quella sua ultima lezione, con parole che in queste ore ricorrono citate sui social dai suoi tanti, tantissimi allievi (lui ne contava «circa 5mila). «Chi ha scelto di fare l’insegnante non può prendersi il lusso di fare il pessimista». Lui era così, un maestro «autorevole e gentile», come tanti oggi lo definiscono, nel cordoglio diffuso delle istituzioni, dal presidente della Repubblica Mattarella al ministro della cultura Franceschini, del mondo universitario, dei politici, della gente comune, un intellettuale con il sorriso sempre pronto, uno studioso che credeva fermamente nella condivisione della cultura e nel senso civico della sua professione, lo stesso sentimento che ne animava le doti di generoso divulgatore, preciso, autorevole, incisivo, eppure mai cattedratico, mai noioso. Al centro dei suoi studi la parola, primo strumento del pensiero umano, ponte tra noi e il mondo, ma anche l’analisi dell’evoluzione della lingua dal latino all’italiano, dall’idioma popolare al linguaggio poetico, dalla grammatica storica all’influenza dei contesti culturali e sociali. La lingua cambia, certo, «ma questo avviene molto più lentamente di quanto non si creda», rispondeva qualche tempo fa a chi gli chiedeva se la pandemia da Covid avrebbe lasciato una traccia nella nostra lingua. I neologismi «sono un po' come i girini, ne nascono moltissimi ma alla fine sono pochi quelli che riescono ad impiantarsi stabilmente». Critico sull'uso smodato degli anglismi, soprattutto da parte delle istituzioni e dei giornalisti, sorrideva sull'uso di termini come Jobs act «che non si sa cosa voglia dire». Grande amante di Dante, gli piaceva notare come fossero diffuse le citazioni «inconsapevoli» della Divina Commedia, una su tutte quel «Mi taccio» tanto usato dai politici invitati nei dibattiti televisivi, forse senza ricordarne l’origine nel X canto dell’Inferno, quello di Farinata degli Uberti. Nato a Roma nel 1947, dopo la laurea in Lettere con Arrigo Castellani, aveva iniziato molto presto la carriera accademica, professore incaricato di Storia della lingua italiana nelle università di Siena, poi all’Aquila e Messina prima di diventare ordinario a Roma, dove ha insegnato dal 1980 al 2017. Negli ultimi anni viveva a Ostia dove continuava ad essere molto attivo sul piano culturale e sociale, girando per le scuole, tenendo lezioni sulla Divina Commedia. Animato da un senso civico fortissimo, lo stesso che lo aveva portato a considerare la sua professione come un servizio, un dovere costituzionale, un precetto al quale adempiere nei confronti dei suoi studenti. Ai quali non a caso, in quell'ultima lezione, volle ricordare proprio quel passo della Costituzione ("Comma 2 dell’articolo 45") che per tutta la sua vita di docente ha voluto seguire, interpretandolo anzi «oltre la lettera». «Per me, ragazzi, voi rappresentate lo Stato».