Chi ha sparato sapeva a chi stava puntando, chi è morto non è stato colpito per caso. Ruota attorno a questa convinzione l’indagine della Squadra mobile per l'omicidio di Ruiming Wang, il 35enne cinese ucciso questa mattina a colpi di pistola all’interno del suo bar all’angolo tra via Bessarione e piazza Angilberto 2 a Milano, nel quartiere Corvetto, zona sud-est della città. Ruiming, che ormai preferiva farsi chiamare Paolo per evitare errori di pronuncia degli italiani, è stato raggiunto da almeno 5 proiettili esplosi con una semiautomatica calibro 9x21 alle 7.15, poco dopo l’apertura del bar ai clienti. L’ipotesi scambio di persona è già scartato, la possibilità della rapina finita male esclusa dall’elenco perché chi ha sparato ha lasciato sul posto quei pochi contanti e il resto dell’eventuale bottino.
Un agguato certamente ma senza l'impalcatura del commando. Una sola persona, una sola pistola, un affare privato da risolvere in fretta, senza indugiare oltre gli spari sufficienti. Da un primo accertamento sul corpo sarebbe stato centrato 4 volte al torace e una al collo, nei prossimi giorni l’autopsia chiarirà il numero esatto dei fori di ingresso e di uscita. Un vecchio adagio tra investigatori sostiene che «i cinesi li ammazzano i cinesi», e a ben vedere gli omicidi avvenuti negli anni a Milano pare che il proverbio non sbagli. Questa volta, però, tra le donne e gli uomini della Mobile si sta facendo spazio la sensazione che l’assassino non sia asiatico. L'omicidio di Wang va cercato in un altro fascicolo della sua vita, probabilmente legato proprio alla sua caffetteria «Bar Milano», un locale di margine, già chiuso tre volte dal questore Giuseppe Petronzi tra il 2014 e il 2018. I motivi del provvedimento riguardavano la presenza di pregiudicati al bar, ma negli ultimi anni i richiami sono spariti in virtù del rispetto delle regole, e ciò lascia ipotizzare che il titolare abbia trovato un modo per allontanare i clienti più problematici. O forse così pensava e a sparare è stato qualcuno che frequentava il bar, che conosceva gli orari e anche i flussi dei clienti. Al momento dell’omicidio pare non ci fosse nessuno per testimoniare ma il killer non avrebbe preso in considerazione le telecamere di sorveglianza. Ce ne sono all’esterno, ben visibili a tutti e infatti «tutti» quelli che frequentavano il bar sapevano che non erano in funzione.
Un’informazione molto utile per il nemico di Wang. Poi ci sono quelle interne, a cui nessuno ha mai dato troppo peso e che ora potrebbero rappresentare la svolta. Può darsi, alla fine di questa storia, che l’assassino venga incastrato da questo piccolo ma fondamentale dettaglio: quelle telecamere apparentemente obsolete che Wang aveva installato nel locale non erano solo un deterrente per i rapinatori. Gli investigatori diretti da Marco Calì, coordinati dal pm Bianca Baj Macario, si stanno concentrando proprio sul recupero delle immagini registrate nel sistema interno, tutto in cinese e di difficile utilizzo anche per la moglie della vittima. Era in casa quando sparavano al suo uomo, nella stessa palazzina del bar dove vivevano con il loro bambino di 9 anni. Nessun problema con la giustizia, un profilo basso, quasi rasoterra se non fosse stato per la gestione del bar che li aveva resi volti conosciuti in zona. La prima telefonata ai soccorsi è partita da un dirimpettaio che ha udito gli spari, ma una volta sul posto è bastato il suo pianto disperato per spiegare a tutti i presenti che lei era la compagna di Wang. Cioè, di Paolo.
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