Il passo è ancora un po’ incerto, ma occhi e mani – i ferri del mestiere – sono attivi e sempre creativi. Luigi Ghersi, 83 anni, da un anno e mezzo è tornato ad abitare nella sua Messina (fin da giovane ha vissuto prevalentemente a Roma) per riprendersi da una malattia, dura, ma che non ne ha mai fermato la fantasia e la voglia di nuovi progetti. Ce lo racconta lui stesso nella casa in centro, dove per ora si divide tra la cyclette che lo aiuta nel recupero e un ritorno progressivo al suo lavoro d’artista a tempo pieno. Aspetta che arrivi in città “Il soldato di Maratona”, la grande statua in bronzo, alta più di due metri, in fusione a Firenze. Commissionata dal Comune, dovrebbe essere posta davanti all’ingresso della gradinata dello stadio San Filippo, su una base con quattro bassorilievi, ma forse si sceglierà una diversa destinazione. Ghersi aveva finito il gigantesco gesso quando già non stava bene, non si era voluto fermare. Ora l’atteso completamento.
Lui parla del passato senza nostalgie, sta serenamente nel presente e programma con gioia il futuro («vorrei fare molte altre cose, finché la salute me lo consentirà», spiega). Accetta volentieri di parlare di sé, della sua grande carriera (che pure non ha avuto riconoscimenti adeguati), della “necessità” di dipingere, disegnare e scolpire.
Cominciamo dalla sua nuova opera. Perché ha scelto come soggetto “Il soldato di Maratona”?
«Ha un senso politico e sociale. Rappresenta la difesa di Atene, ovvero dei valori della democrazia, contro i Persiani, esponenti del potere assoluto».
Lei è stato definito solitario, schivo, lontano dalle mode, addirittura inattuale. Si vuol indicare un artista senza condizionamenti, che obbedisce soltanto a ciò che sente di volta in volta?
«Non posso dire di non essere inattuale. Ma la definizione non mi piace, perché non è un atteggiamento, non lo faccio per dispetto ma per necessità intellettuale. Sono un vecchio messinese, credo nella città e nella sua storia. La amo, anche se ho vissuto a lungo lontano. Vorrei continuare a raccontarla, ci sono ancora due muri liberi nella facoltà di Scienze, mi piacerebbe dipingerli con momenti storici. Una parete con scene dalla seconda guerra mondiale, l’altra con il ricordo del terremoto, cui ho già dedicato un dipinto. Ricordi personali, certo, che però riguardano tutti. Mio padre (il filosofo Guido Ghersi, ndr) fu dentro il terremoto. Tutto, però, con lo sguardo rivolto al futuro: credo che Messina possa essere rilanciata, occorre una programmazione illuminata. Forse sono un solitario come artista, ma come persona mi è sempre piaciuto vivere nel sociale».
Nei suoi inizi sono gli spagnoli Velazquez, Goya, Picasso a “provocarla”: perché?
«Li sentivo molto, li trovo contemporanei. Anche Velazquez: era un pittore di corte, ma nei suoi dipinti c’è spirito di verità, uno sguardo straordinario sulla realtà. Amo il Picasso di “Guernica”. Credo che un siciliano – e io sono molto siciliano – sia anche un po’ spagnolo».
Nei suo geni ci sono anche Caravaggio e Bacon, forse Bosch, e altri, ma sempre come punto di partenza per nuovi rovelli e reinvenzioni personali: lo spunto delle sue creazioni parte dall’attualità e risente del passato, o viceversa?
«L’uno e l’altro cammino si svolgono dentro di me. Il passato alimenta una serie di immagini. Personaggi contemporanei, come Libero Grassi e Giorgio Boris Giuliano, erano miei amici e al loro sacrificio ho dedicato opere molto sentite. Ed era attualità anche il sequestro Moro, che mi ispirò il dipinto “Crocifissione in un interno”, al quale la critica ha attribuito ascendenze caravaggesche».
In un artista che nasce a Messina c’è sempre un debito con Antonello, o no?
«Sicuramente sì. Quando io ero ragazzo ci fu a Messina la grande mostra organizzata da Salvatore Pugliatti. Un evento che mi ha segnato. Andavo ogni giorno a vedere i dipinti di Antonello, restavo inchiodato. Così ho scoperto la pittura-pittura. Anche se psicologicamente in ginocchio, non ero uno spettatore inerte».
I grandi murali della facoltà di Scienze rappresentano un momento centrale della sua opera. Avviene qui la riscoperta dei miti?
«Sì, è vero. Come pittore i miti “esplodono” in quei murali. Ma il mio rapporto era nato da bambino quando mio padre, tenendomi sulle ginocchia, mi raccontava i miti greci e tutte le storie omeriche. Già allora cominciai a disegnare episodi di Iliade e Odissea. A 9-10 anni realizzavo cartoncini, anche con le vedute delle città».
Era già destinato alla pittura.
«Sì, ma appartenevo a una famiglia borghese ed ero vincolato a una professione borghese. Avevo pensato di fare l’architetto, poi mi sono laureato in giurisprudenza. Non mi sarei trovato bene nel mondo dell’architettura, troppo condizionato da funzionalità e utilitarismo piuttosto che dalla bellezza».
Nella parete dedicata a “Horcynus Orca” di D’Arrigo, lei fa prevalere la figura di Ciccina Circé su quella di ‘Ndria Cambria, protagonista del romanzo. Perché?
«Intanto perché la modella era mia moglie Linuccia, quindi la definirei una prevalenza inesorabile. E l’immagine della figura femminile che attraversa lo Stretto tempestoso è una celebrazione della donna».
Percorsa la strada dei miti e della classicità, forse le opere di scultura sono diventate “inevitabili” e sempre a modo suo, come ne “L’Agorà” di Punta Raisi. È così?
«La scultura mi piaceva da sempre. Ma era più problematico frequentarla. Ho potuto farlo quando ho avuto i mezzi economici. Dà la possibilità di portare la forma dentro uno spazio fisico reale».
Per molti anni lei ha fatto il giornalista: che cosa si è portato dietro nel suo lavoro d’artista?
«Mi viene da dire: niente. Anche se ho fatto giornalismo con grande impegno morale, sociale e politico. Ricordo, quando ancora ero a Messina, una grande inchiesta sugli ospedali per “La città”, una pubblicazione diretta da me e sulla quale scrivevano Eugenio Vitarelli e Giuseppe Loteta. Poi a Roma ho vissuto la grande stagione di “Astrolabio” e di altre riviste culturali. Ho anche fatto politica, prima con i radicali e poi con i socialisti. Ma confesso di provare una sorta di rancore verso il giornalismo perché a lungo mi ha distratto dalla pittura, cioè dalla mia vera vocazione, cui mi sono dedicato completamente solo a 40 anni».
Messina, Roma e lo studio a Itala Superiore, e adesso ancora Messina. Cosa la lega alla sua terra? E dei colleghi di allora, con quali sente di avere ancora qualcosa in comune?
«Mi è capitato di dire che noi siciliani siamo destinati a vivere permanentemente in una condizione di esilio. Siamo troppo antichi per poter essere moderni adeguandoci al nuovo e troppo consapevoli del peso inesorabile della storia per rifiutare la modernità. Tra noi e il presente si determina una distanza critica rispetto alla realtà. Lo hanno detto Pirandello, Sciascia e altri. Conosco e stimo molti colleghi messinesi ma sono legato a Nino Cannistraci: rispetto a lui ho grandi debiti artistici, come le figure dei babbuini nella “Crocifissione”. Peccato che se ne sia andato da Roma dopo che lo avevo convinto a venire nella Capitale. Un altro vero amico è Guido Giuffrè, grande critico. Da ragazzi andavamo a dipingere insieme. Quanti ricordi in questa mia città!».
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Il profilo
Una vocazione dirompente e irresistibile
Luigi Ghersi nasce a Messina nel 1932. Dopo il diploma all’Istituto d’Arte di Firenze (1955) e la laurea in legge a Palermo, si dedica al giornalismo nella sua città a poi a Roma, dove si trasferisce nel 1960. Sceglie poi di darsi solo alla pittura e la sua mostra alla galleria Due mondi di Roma (1974) gli dà grande successo. Tra le opere, vanno ricordate le grandi pitture murali nell’Atrio dell’Aula Magna della Facoltà di Scienze di Messina (1986-1988/89) e per la Sala Consiliare del Comune di Piana degli Albanesi. Nel 1991 Ghersi termina la Centauromachia, bassorilievo in bronzo (fuso nel 1992) per il nuovo Ospedale Papardo di Messina e ne realizza un altro, imponente, in ceramica, nel 1998, sulla facciata dell’Auditorium della Gazzetta del Sud. Del 1993 è L’Agorà, per l’aeroporto di Palermo: complesso di sculture poste su di una piattaforma di pietra lavica e ambientate in un vasto sfondo pittorico. Tra il 1995 e il 1996 lavora alla ristrutturazione e alle pitture murali della Cappella dell’Ospedale di Patti (Messina). Da ricordare Pegaso, in bronzo, per l’Università di Reggio.