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Le mappe del sogno e dell’anima disegnate da Tullio Pericoli

Da bambino disegnava. Da ragazzo anche. Quando fu più grande si iscrisse all’università, facoltà di giurisprudenza perché così aveva desiderato suo padre. Però – ed era a un passo dalla laurea – piantò tutto, non sentendosi tagliato per quella strada. E se ne andò a Milano Tullio Pericoli, su richiamo dell’estroso Cesare Zavattini, con il quale si trovava in grande sintonia.

Il marchigiano Tullio Pericoli, nome oggi internazionale, incominciò sulla stampa. Disegnava in modo personalissimo, che piaceva ai giornali e trovò lavoro prima al Giorno (illustrava racconti di Calvino, Gadda, Soldati…) poi definitivamente a Repubblica, dove divenne una star (i ritratti di personaggi celebri; negli anni 70 la serie delle “geologie”). Tuttavia faticò non poco ad imporsi. E ancora oggi, con alle spalle un curriculum regale, gli è rimasta addosso una singolare aurea che lo inquadra in un filone particolare, come fosse un amabile signore che si diverte a fare illustrazioni, a schizzare visi curiosi, tutti pieni di rughe, con una lontana espressione ironica, oppure a riempire fogli con paesaggi angelici, vedi infantili, trasparenti, che illustrano così bene i panorami di dove è nato (Colle del Tronto), ma senza inserirsi nella grande pittura.

Un po’ come avvenne per Nino Rota, che Toscanini giudicò «bambino di prodigioso talento», divenuto prolifico e grande compositore (di grande successo la sua opera “Il cappello di paglia di Firenze”) eppure che per anni (e ancora adesso) taluni continuano a considerare non musicista di prima grandezza. Ma così fu anche per Ennio Morricone, finché non si decisero ad assegnargli l’Oscar (appena “in tempo”…). Quanto a Pericoli, Dio sa quali riconoscimenti ha ricevuto in campo mondiale: dalla commissione della pittura murale per la sede della Garzanti di Milano, alle mostre a Palazzo Reale, a New York, all’Istituto di Cultura Italiana a Tokyo, agli incantevoli allestimenti lirici – “L’elisir d’amore” e “Il turco in Italia”, rappresentati alla Scala e all’Operhouse di Zurigo – , alla quantità dei Premi Speciali Paesaggio, alla moltitudine di libri, molti “d’artista”, che non sono normali libri ma opere d’arte.

Di uno di questi stiamo parlando, protagonista della mostra alla Galleria Consadori di Milano (23 settembre-17 ottobre. via Brera 2- martedì-sabato ore 10-13, 15-19. Un’altra mostra di Pericoli è in atto ad Alba fino al 26 novembre e riguarda i paesaggi delle Langhe). La mostra di Milano, inaugurata il 20 febbraio e dopo alcuni giorni sospesa a causa della pandemia, espone 11 acquerelli e 6 oli di “Sul farsi del mondo”, libro illustrato di favole del filosofo tedesco Walter Benjamin, edizioni Henry Beyle, ed.Vincenzo Campo traduzione di Elisabetta dell’Anna Ciancia, libro definito come «interpretazione a due voci del nostro esistere sulla Terra». Per renderci conto della qualità dell’opera bastano alcuni dati di identificazione: pag 68 su carta Tatami ivory, tiratura 500 copie, 100 copie con sopracopertina carta Tela Giappone, 21 esemplari contrassegnati dalle lettere dell’alfabeto con acquerello originale su carta amatruda. Infine, 9 immagini applicate a mano. E’ stato un incontro inaspettato e felice tra i due artisti.

Come tutti (o quasi) gli artisti, Tullio Pericoli non programma il suo lavoro. Quando compare l’ispirazione la condivide, la segue, guidato da una precisa memoria fisica cui partecipa tutto il suo corpo. E lui diventa la sua opera. È sempre stato leggero come una piuma, nel suo tratto cordiale, che poteva sembrare infantile. Ma non lo è, tanto che ora che i suoi anni incominciano ad essere tanti (è classe 1936) l’opera di Tullio Pericoli inizia forse ad essere compresa nella sua più esatta essenza: non un’allegra ingenua fantasia ma un messaggio complesso e raffinato, fascinoso e sognante, che parla dal fondo dell’anima.

Il disegno è sempre uguale: minuto, rispettoso, quasi appena accennato. Una serie di piccole «v» che potrebbero essere uccelli, oppure piante, erbe, semplici zolle. Sghiribizzi che suggeriscono alberi frondosi. Segni astratti che poi diventano sempre più fisici per rappresentare campi ben precisi nei loro confini con sul crinale la sagoma di un casolare o di una chiesa. Esemplari di mappe come quelle dei tempi andati, dove era segnato il ruscello che divideva due poderi. Poi arriva il colore (acquerello o olio) persino di una certa violenza, come quelle improvvise chiazze gialle tra l’inchiostro di china. Più spesso si tratta di ocra, marrone, pallido arancio: i colori della terra. Oppure verde. Molto verde. Di tutte le tonalità: scuro, marcio, bottiglia, pisello, primavera, tutti i verdi della natura che si fondono senza nessuna dissonanza, inseguendosi per pendii e avvallamenti, in una inconfondibile identificazione con quei dolci paesaggi marchigiani. Come è successo pure per la serie delle Langhe piemontesi («ero sempre là, mi immedesimavo in quelle colline, ero vittima di un sortilegio»).

Tullio Pericoli è un signore gentile (non potrebbe essere diversamente) ma esprime opinioni precise su quanto gli accade intorno, nel mondo dell’ arte. «Nell’arte contemporanea c’è molto bluff: il ruolo del gallerista è determinante, spesso purtroppo in senso negativo. È lui che decide come manovrare il mercato, se dare o no visibilità a un artista e ne condiziona la produzione, subordinandola a quantità e non a qualità. Quando l’arte ha un valore borsistico diventa un fatto deprimente». Dopo un’esperienza negativa in questo senso, che gli ha lasciato l’amaro in bocca, Pericoli si è messo “in proprio” e lavora secondo l’estro. In studio va ogni giorno, il mattino legge, in pomeriggio dipinge. La solitudine gli è necessaria «per sottrarsi al decadimento dei valori che oramai avvolge qualsiasi cosa (e molte persone)». Forse questo il motivo per cui non è (ancora) stato accolto dalla Biennale? Ma la storia non fa che ripetersi: Claude Monet, padre dell’Impressionismo, non fu ripetutamente respinto dal Salon? Tullio Pericoli, artista squisitissimo che incanta il mondo (questa ennesima mostra ne dà prova) se ne è fatto una ragione: «Si può essere riconosciuti da tutti come un artista di vaglia, ma poi quello che conta è quello che produci. È la tua opera che ti rappresenta nella totalità».

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