Se lo si può fare in una grande mostra, lo si può fare anche in un articolo che quella mostra vuole raccontare: cioè aprire con un dipinto che non c'è, distrutto da un bombardamento verso la fine della Seconda guerra mondiale. Aprire è il verbo giusto, molto più di cominciare, per chiarire subito il fondamento di “Van Gogh. I colori della vita”, prodotta da “Linea d'ombra” e curata da Marco Goldin, allestita a Padova, nel Centro San Gaetano, da ieri all'11 aprile 2021, che confronta l'olandese anche con altri artisti. Perché da quel dipinto che non c'è, valorizzato e “spiegato” nella sezione d'avvio della mostra dalla presenza di tre grandi tele di Francis Bacon, appartenenti alla serie del 1957 dedicata a quell'opera vista solo in fotografia, si apre non solo un percorso che giustamente intreccia vita e arte di Van Gogh, ma apre (appunto) uno squarcio - doloroso e avventuroso - sulla sua esistenza tormentata, ricca di storie e di conoscenza. Da quello squarcio si entra a poco a poco nell'anima di Van Gogh, fino a portare il visitatore disposto alle emozioni a una sorta di simbiosi-compenetrazione, di autoanalisi e di capacità di capire l'essenza, più semplice e più vera, del mondo. Perché, secondo Goldin, Bacon vedeva (e noi dovremmo fare altrettanto) Van Gogh come il pittore-eroe: «Colui che ha un compito, una missione da compiere e a essa tutto sacrifica». Un Ulisse che affronta i pericoli della conoscenza più autentica (quella vicina alla natura e alle persone “semplici”, dai contadini ai minatori), o pure un Don Chisciotte destinato alla sconfitta in vita e all'immortalità fra i posteri, ma più concreto del personaggio di Cervantes nel lasciare traccia viva, attraverso i suoi colori, visionari eppur reali. Van Gogh aveva intitolato la tela scomparsa (è simbolico che sia stata distrutta da una guerra) “Il pittore sulla strada di Tarascona”, raccontandosi (era il 1888) in cammino sotto il sole per andare a dipingere fra i campi di grano. Se vogliamo continuare con il parallelo con Don Chisciotte, possiamo immaginare il cappello di paglia come l'elmo-bacinella, la tavolozza e i pennelli nella mano destra come la spada, il cavalletto nella mano sinistra come lo scudo. Una visione d'artista che Bacon aveva trovato coeva a se stesso e che ancora oggi dovrebbe fare da guida spirituale per i pittori che vogliono mantenere alla loro arte la dimensione, diversa per ciascuno di essi, di quella storia infinita che porta alla creatività e alla creazione. Le “avventure” di Van Gogh (Zundert, Olanda 1853 - Auvers-sur-Oise, Francia 1890) sono quindi raccontate minuziosamente nella mostra che presenta 82 opere, fra dipinti e disegni, di un artista «febbricitante sempre, e allarmato nel suo incontro con il destino». Lui, dopo un periodo di vita normale, l'esperienza con i minatori di Marcasse, vari ritorni in famiglia (il padre era un pastore protestante), le difficoltà iniziali nel disegno e il crescente interesse per il lavoro di tessitori e contadini, dall'arrivo a Parigi nel 1886 si sente sempre più investito di una missione artistica e umana e ha la coscienza del suo valore innovativo, che supera l'impressionismo, destinato a essere capito solo quando lui non ci sarebbe più stato. Anche per questo Godin apre il suo saggio in catalogo con la frase perentoria: «Van Gogh non era pazzo». E aggiunge: «Ha camminato danzando sulla vita, come sul filo mai interrotto di un vulcano». Non è poesia, anche se ne ha la capacità di racchiudere l'universo in poche parole. Piuttosto è un modo per spingere il visitatore sempre più dentro quel vulcano, per il pittore talmente infuocato da averne determinato la difficoltà di vivere fino al suicidio finale. Un carattere impossibile che lo aveva portato anche a scontrarsi con l'amico Gauguin (fino all'episodio dell'autolesionismo all'orecchio) e ad avere alti e bassi con il fratello-mecenate Teo. Tutto testimoniato dalle sue tantissime lettere. Così è possibile visitare la mostra in due modi diversi. Il primo è un approccio interessato, pur sempre in modo sincero, alle qualità pittoriche di un artista che ha cambiato il modo di usare i colori, di rappresentare la natura, di farci bruciare dal suo sole di una luminosità senza limiti, di raccontare le persone nei ritratti attraverso altre luci non meno incandescenti, quelle delle espressioni e delle posture. Il secondo modo è quello di lasciarsi prendere dalle emozioni, fare posto a quell'essenza inafferrabile di noi stessi che chiamiamo anima, ma che può essere spirito o energia o altro ancora. Allora succede che quando sul cammino espositivo si arriva davanti ad “Autoritratto con cappello di feltro grigio” (1887) - verrebbe da dire «in carne e ossa», in ogni caso «in tela e pennelli» - si ingaggia una specie di lotta introspettiva, in cui la maggior parte di noi si trova in difficoltà davanti alla forza del pittore-eroe. Lo sguardo è penetrante, l'atteggiamento è risoluto. Ecco, allora, che se il nostro approccio è il secondo, ci si trova di fronte - la reazione è soggettiva, s'intende - alla necessità di autoconfessione, ma anche di combattimento con quella figura che ci richiama alla dedizione assoluta a ogni propria personale causa. Ci spiega, insomma, che tante cose che consideriamo impossibili dovrebbero invece essere la nostra missione. Ma, per nostra fortuna, lui, Van Gogh, era e rimane unico.