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Macchiaioli: guardare oltre la macchia per capire un movimento rivoluzionario

Singolare sorte quella dei Macchiaioli, se si pensa che il dimenticato giornalista che nel 1862 per primo coniò questo termine lo fece per prenderli in giro, a indicare come questi artisti non fossero ritenuti capaci di andare oltre alla distribuzione di colore sulla tela, senza accompagnarlo e definirlo con forme adeguate. Del resto, c’era chi aveva giudicato un paesaggio agreste con mucche soltanto «una frittata, ripiena di vacche in gelatina» e chi aveva commentato un altro paesaggio così: «Potrebbe essere un bel quadro se l’autore si fosse dato la pena di finirlo». E anche loro, gli artisti, un po’ per motivi economici e un po’ per motivi ideologici (rifiutavano categoricamente la pittura accademica) davano l’occasione alle sottovalutazioni tra dipinti davvero non finiti e utilizzo di materiale scadente (il cartone, per esempio).

Adesso il movimento di pittori, prevalentemente toscani, che si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento e da taluni considerato persino (troppo ottimisticamente) precursore dell’Impressionismo francese, è oggetto di una rivalutazione, che si aggancia a quella che a inizio Novecento avviò lo scrittore e giornalista Ugo Ojetti, seguito poi da Emilio Cecchi. Le mostre si susseguono, eppure c’è spesso un ma, una sorta di pregiudizio non sempre scritto. Per cui capita che i Macchiaioli si trovino celati fra un’esposizione dedicata ai paesaggi italiani dell’Ottocento oppure fra le tele di carattere risorgimentale e così via.

Adesso la Fondazione Bano (con la decisiva collaborazione dell’Istituto Matteucci di Viareggio) propone nella sede di Palazzo Zabarella a Padova una grande mostra con oltre cento dipinti, dal titolo esplicito “I Macchiaioli. Capolavori dell’Italia che risorge”, curata da Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca, che rimarrà aperta fino al 18 aprile.

Sono più di cento opere – molte poco conosciute e viste – che danno un panorama interessante e completo di quel movimento che ha avuto in Giovanni Fattori e Telemaco Signorini i suoi maggiori esponenti. Però anche qui si sceglie una via trasversale, quella dei cosiddetti “fiancheggiatori” (termine ideale per chi aiutava coloro che si erano dati alla… macchia): mecenati (tra loro, anche molte dame), collezionisti, colleghi e mercanti, che consentirono a tanti artisti, altrimenti misconosciuti, di trovare un loro mercato e qualche sicurezza di vita (si pensi alla tormentata esistenza, per amore e per denaro, di Silvestro Lega, un pittore rivalutato pienamente da questa mostra).

Non è una scorciatoia, comunque, perché serve a far capire meglio come la Macchia, al di là dei giudizi critici contrastanti, sia stata alla base di un movimento autenticamente rivoluzionario: non solo dal punto di vista artistico, ma anche dei contatti con i letterati e con le anticipazioni del verismo, con gli scienziati progressisti, con la borghesia illuminata verso l’Unità d’Italia in pieno svolgimento (molti i dipinti di soggetto risorgimentale), con una società che a poco a poco si allontanava dai vecchi schemi. Insomma, la mostra con intelligenza mette in evidenza un cammino ideologico di progresso, inteso in tutti i sensi. Certi paesaggi di campagna, gli abiti delle ricche signore e delle contadine, i giochi delle bambine, i ritratti, gli esterni e gli interni delle ville possono apparire superati, ma sono storia e non storia qualunque, perché è storia in movimento. E sono anche buona pittura.

Di alcuni artisti appare netta l’evoluzione, pur se il percorso espositivo non segue criteri cronologici e sceglie la ricostruzione delle varie collezioni, per lo più andate disperse. Mi riferisco a Telemaco Signorini, per esempio, il cui realismo perde col tempo la precisione delle forme a favore di un’ispirazione, anche sociale, più ricca di sensazioni (di straordinaria modernità la tela “Bambini colti nel sonno” del 1896). E ad altri che a Padova, trovano un riscontro che non sempre hanno avuto: Vincenzo Cabianca, soprattutto, ma anche Giuseppe Abbati, Vito D’Ancona e Odoardo Borrani.

Un’altra presenza interessante è quella di Giovanni Boldini, con tre ritratti eseguiti prima del trasferimento a Parigi, dove avrebbe trovato un incondizionato successo con le sue eleganti dame dipinte. Mi riferisco in particolare al “Ritratto di Giorgio Sivieri” (1866 – 1867), in cui il soggetto sembra pronto a uscire dalla tela con una vitalità, esplicativa dei cambiamenti dell’epoca. Un capolavoro poco conosciuto.

Un accenno, infine va fatto, a due collezionisti perché rappresentano meglio di altri due stadi temporalmente diversi del rapporto con gli artisti, e perché le loro raccolte non sono state smembrate. Il primo è Diego Martelli, personaggio che brilla di luce propria perché intellettuale e critico conosciuto in Europa. Fu amico e mecenate dei Macchiaioli e li ospitava generosamente nella sua tenuta di Castiglioncello, soggetto preferito di molti quadri. E non a caso fu il primo a portare in Italia gli Impressionisti francesi. La sua collezione è conservata nella Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze. Il secondo è il livornese Alvaro Angiolini che nel secondo dopoguerra del secolo scorso s’impegnò a rivalutare i Macchiaioli, mettendo insieme opere di grande formato, una collezione fondamentale che gli eredi hanno tenuto insieme.

Tra le tantissime opere, in mostra il famoso “Pio bove” di Giovanni Fattori (con gli echi carducciani che si porta dietro) e il raffinato “Ritratto della signora Elvira Bastandi Mariani con pappagallo”, 1875, di Vito D’Ancona. Un esterno e un interno che danno conto della capacità dei Macchiaioli di non fermarsi alla contemplazione della natura, ma di saper essere testimoni di una società in piena mutazione.

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