Frenetico, febbrile, avido d’arte, scolastico, scontento, viaggiatore, ricercatore, esploratore, sempre e comunque inesausto: comincia così, pieno di roventi contraddizioni, il purtroppo breve viaggio artistico di Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916), con lo studio del disegno a Roma (dal 1901), le prime frequentazioni di artisti (Severini, Cambellotti, Balla), l’ammirazione per Previati, ma anche con la convinzione che impressionismo e divisionismo, perfino il cubismo, debbano essere superati per una raffigurazione della modernità. Tutto accadeva prima che il trasferimento a Milano nel 1907 lo facesse cominciare a viaggiare verso il Futurismo. Boccioni annotava nei suo diari: «Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale (…). Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo, che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! Tutto il passato, meravigliosamente grande, m’opprime, io voglio del nuovo!». A questo primo periodo, in cui opere famose come “Dinamismo di un ciclista” potevano ancore sembrare inimmaginabili, è dedicata una mostra che definirei deliziosa per come è incastonata negli spazi della galleria “Bottegantica” di Enzo Savoia, ma che è anche di grande rigore scientifico perché presenta, in un catalogo particolarmente importante, nuovi e rigorosi studi sui disegni e sulla grafica di quegli anni di formazione. Curata da Virginia Baradel, in collaborazione con Ester Coen e Niccolò D’Agati, la rassegna propone un’accurata selezione di opere eseguite da Boccioni tra il 1901 e il 1909 (più un olio del 1912). Anni nei quali il giovane Boccioni alterna allo studio l’importante soggiorno parigino del 1906 (che lo rivitalizza dopo alcune iniziali delusioni) e un viaggio in Russia. Viene così testimoniato un periodo meno conosciuto attraverso l’esposizione di un sostanzioso corpus di disegni, che raccontano i tentativi sia di capire come si ottiene una prospettiva o una forma sia la voglia immediata, una volta ottenuto lo scopo scolastico, di ribaltare il traguardo raggiunto, soprattutto nel tracciare il corpo umano nello spazio. Così come i lavori di grafica pubblicitaria e non, cui Boccioni – utilizzando le tempere – si dedicava per guadagnare qualcosa, cercano sempre un particolare in più, ispirato a quel concetto di dinamismo che l’artista aveva dentro di sé. Forse una conseguenza della vita girovaga subìta da bambino e da adolescente, in cui la sua famiglia romagnola seguiva i continui trasferimenti del padre, usciere di prefettura: dalla natia Reggio Calabria a Forlì, Genova, Padova, Catania (dove Umberto ottenne il diploma all’Istituto tecnico) e infine Roma. Alcuni disegni e ancor più gli olî in mostra fanno comprendere con chiarezza il percorso evolutivo da un parziale realismo legato ai grandi del passato (soprattutto all’amato Dürer), al divisionismo e poi verso i prodromi di quello che Boccioni diventerà. I ritratti della molto amata madre (che era rimasta a Padova in occasione del trasferimento in Sicilia), malata e più probabilmente depressa (anche perché a Roma il marito si era rifatto una vita), sono stati realizzati, con tecniche diverse, in un breve lasso di tempo, tuttavia presentano un evidente cambiamento di stile. Il ritratto in grafite del 1907 è legato al realismo (e a Dürer), ma è già comunque un’interpretazione personale della realtà, grazie allo sfondo indefinito, a molti particolari sfumati; colpisce l’acutezza dello sguardo. Soltanto un anno dopo il pastello su carta “La madre malata” accentua di molto quelle caratteristiche, conservando la capacità di “raccontare” uno stato d’animo con uno sguardo dinamico a fronte dell'immobilità del corpo. Infine “La madre”, olio su tela del 1912, è già una tappa intermedia verso il Boccioni futurista che conosciamo: qui è il colore che, a fronte della staticità della posa, si fa movimento. Non solo, appaiono già le personalissime tonalità che poi lo avrebbero lanciato verso una ricerca pittorica (e scultorea) apprezzata in campo internazionale, tragicamente interrotta da una banale caduta da cavallo, quando aveva solo 34 anni.