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L’inquietudine sospesa del “realismo magico” al Palazzo Reale di Milano I QUADRI DELLA MOSTRA

Capolavori perturbanti d’una “non corrente” italiana che è tutta da riscoprire

C’è una parola, «inquietudine», che si staglia netta nella celebre definizione che il critico e scrittore Massimo Bontempelli diede di «realismo magico», una modalità espressiva (e mai una corrente organizzata) adottata da molti pittori nel periodo a cavallo fra gli anni Venti e i Trenta del secolo scorso. Eccola: «Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta…». Ed è proprio l’inquietudine il concetto che unisce il percorso della mostra “Realismo magico. Uno stile italiano” all’emozione e al sentimento di chi, da visitatore, segue lo snodarsi sulle pareti, come scrivono i curatori, «di una pittura sapiente, immacolata, algida, oggettiva, ma intrisa di mistero e ambiguità». La mostra, allestita a Palazzo Reale fino al 27 febbraio, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, è promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore, che ha pubblicato anche l’importante catalogo.
Sovrastato storicamente da “Novecento”, la corrente del “ritorno all’ordine” dopo il Futurismo e lontana da espressionismo e astrazione, che, attraverso l’opera critica di Margherita Sarfatti, diede a tanti artisti la possibilità di “convivere” con il regime fascista, il “realismo magico” era rimasto finora in un cantuccio, nonostante l’opera di un gallerista illuminato, Emilio Bertonati, morto prematuramente nel 1981, che per primo aveva riacceso l’interesse verso di esso. La sua strepitosa collezione è al centro di questa mostra, presentata integralmente, assieme a importanti prestiti per un totale di oltre 80 opere.
Nel breve periodo, che i curatori fanno andare dal 1920 al 1935, molti artisti entrano a pieno titolo in questa “non corrente”, ispirandosi soprattutto alla grande pittura italiana del Quattrocento e trovando punti di contatto (sottolineati dall’esposizione) con la “Nuova oggettività” tedesca. Fu proprio in Germania il critico Franz Roh a usare per primo la definizione “realismo magico”. Attraverso questo apparente ossimoro, sono passate (chi fuggevolmente, chi per un periodo più lungo) le creazioni di pittori destinati a trovare anche altre vie come Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Felice Casorati, Gino Severini, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Mario ed Edita Broglio, e perfino Mario Sironi, fino ad arrivare a Cagnaccio di San Pietro (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa) e Antonio Donghi, decisamente più refrattari al regime, che portarono avanti quello stile anche negli anni successivi, utilizzando modelli proletari piuttosto che eroici.
Torniamo al concetto di “inquietudine” che pervade queste opere. C’è sempre qualcosa di attonito, nei personaggi e nelle cose, è come se venga mostrato un attimo capitale, quello in cui si è compreso il senso di tutto ma non si fa in tempo a comunicarlo: un effetto straniante, che colpisce anche nei ritratti, dove l’idea base dell’oggettività porta verso una soggettività non risolta, con la presenza di un non detto (o meglio, un non dipinto). Certamente c’è anche il tema della solitudine (sono molte le consonanze con l’americano Edward Hopper che operava nello stesso periodo, sarebbe un percorso critico da approfondire), ma le tele rimandano un senso di sospensione del tempo e un’assenza di suono, perfino quando più personaggi sembrano intenti a conversare. Certi ritratti di Casorati, come “Silvana Cenni”, “Doppio ritratto”, “Renato Gualino”, “Cynthia”, “Raja”, come anche il celebre “L’allieva” di Sironi, sono difficili da “sopportare” tutti insieme. Non è facile da spiegare, è come se comunicassero una rivelazione senza rivelarla davvero: si rimane estasiati, colpiti, emozionati, ma anche “offesi” per quel non detto, che inevitabilmente ci porteremo dietro, almeno per un bel po’.
Ed è ciò che accade pure con “Bambini che giocano” di Cagnaccio (un artista cui la mostra dà finalmente il posto di rilievo che merita), con i soggetti che esprimono infanzia e maturità, ambedue irrisolte, mentre i loro giochi sono bloccati, nonostante l’apparente movimento. E gli altri ritratti di bambini, senza età e senza vera innocenza, dello stesso autore sono l’emblema dell’inquietudine che la mostra emana (grazie anche alla semioscurità di un allestimento perfetto, firmato da Raffaele Cipolletta per lo Studio Mario Bellini). Appare, quindi, logico che la più celebre opera di Cagnaccio, “Dopo l’orgia”, sia diventata il logo della mostra. Ispirata a “Meriggio” di Casorati, propone un eros che sa di morte, ancor più di decadenza morale e fisica, con i nudi femminili in disposizione geometrica e i segni di una presenza maschile, non ufficiale e nascosta, a far da squallido contraltare. Un realismo duro, ma con il costante elemento del tempo sospeso e del silenzio predominante. Un’opera che aveva anche un significato politico: bastò il simbolo del partito fascista su un polsino abbandonato in terra per impedire che la tela fosse ammessa alla Biennale del 1928.
Ecco che siamo tornati a Bontempelli e al suo realismo magico: «Questo è puro “novecentismo”, che rifiuta così la realtà per la realtà come la fantasia per la fantasia, e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose».

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