È arrivata tenendosi per mano con i famigliari e gli amici più stretti, Maria Zulima Job, figlia adottiva di Lina Wertmuller, ai funerali della madre alla Chiesa degli Artisti a Roma. In lacrime ha aspettato l'arrivo del feretro, salutato da un applauso tributato dalla folla lungo le transenne.
Tra i primi volti noti ad arrivare, Giancarlo Giannini ("Lina era una grande donna e una grande regista, senza di lei non avrei fatto nulla"), Giuliana De Sio, Domenico De Masi, Caterina D'Amico, Yari Gugliucci, Marina Cicogna, Cinzia Th Torrini, Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo.
Fra le tante corone, quelle all'ingresso della chiesa di Guido Lombardo e della la Titanus e di Roma Capitale. "Oggi la ricordiamo, facciamolo senza nessuna retorica - ha detto Giuliana De Sio al suo arrivo -. Ieri abbiamo anche cantato alla camera ardente. Siamo sereni. Lina se n'è andata bene senza soffrire, ha vissuto libera come ha voluto. Dobbiamo festeggiarla". A celebrare la messa è don Walter Insero.
I funerali nella Chiesa degli Artisti di Roma. "Sarebbe bello se Roma dedicasse a mamma una piazza o un teatro o un cinema", il desiderio espresso nel giorno della camera ardente in Campidoglio, da Maria Zulima Job, figlia della cineasta.
I versi di una poesia amata da Lina Wertmuller, La goccia, "che voglio leggere come un regalo da parte del suo grande amore Enrico Job" concludono l'omaggio di Giancarlo Giannini durante i funerali della grande cineasta. L'attore, dopo la messa celebrata da Don Walter Insero, rettore della Chiesa degli Artisti e amico della regista, è intervenuto per ricordarla insieme a Rita Pavone, Massimo Wertmuller, Caterina d'Amico e Antonio Petruzzi, attore nel primo film di Lina Wertmuller, I basilischi. "La conoscevo da 60 anni, con lei ho fatto i miei film più belli, mi ha forgiato, sono stato il suo pongo, senza di lei avrei continuato a fare il perito elettronico" spiega Giannini, salito sul presbiterio tenendo stretta una commossa Rita Pavone. "E' stata la mia mamma artistica - dice la cantante -. Mi ha portato a fare cose che mai avrei pensato di poter fare. Era frizzante e spumeggiante con un carattere che adoravo" aggiunge, ricordando qualche aneddoto delle riprese de Il giornalino di Gian Burrasca.
Il nipote della regista Massimo Wertmuller ha unito commozione e humour, rievocando anche il modo deciso e il linguaggio a volte colorito utilizzato della cineasta sul set: "Da una parte piango mia zia, che si porta via tutti i miei ricordi belli di famiglia. Poi si piange il genio che ho avuto la fortuna di avere dentro casa - sottolinea l'attore che ha concluso la cerimonia leggendo la preghiera degli artisti -. Io cara Lina avrei voluto avere anche una cellula sola con l'occhialetto bianco, non è andata così. Oggi per me e Maria (la figlia adottiva della cineasta, ndr) si apre una voragine che non si colmerà".
All'uscita del feretro, come all'entrata, l'applauso della folla in piazza, che si è unito a quello di amici e famigliari della regista.
LINA WERTMULLER, UNA RIVOLUZIONARIA OLTRE I GENERI
Quegli occhiali bianchi, divenuti nel tempo un simbolo e un'icona, non celano più il brillio birichino e pungente della donna e dell'artista che per decenni ha riunito in sé un'immagine dell'Italia applaudita e amata in tutto il mondo. Lina Wertmüller non c'è più, ma potremmo scommettere che proprio in questo momento, da qualche altra parte, sta ridendo del suo ennesimo scherzo al destino: la morte non le faceva paura: "Gli anni ci sono e si sentono - diceva appena poco tempo fa - ma lavorando mi sono divertita tutta la vita e non è poco". Per capire il segreto di questa artista dalla volontà ferrea, dal talento inesauribile, dal fisico minuto e dal cuore grande, bisogna forse tornare molto indietro, alle origini della sua carriera.
Fin da ragazzina ha il fuoco dello spettacolo nelle vene, scopre il teatro tradendo le aspettative di famiglia, ma si concentra su tre linguaggi diversi: le marionette (ha il dono di dare un'anima a ciascuna), la radio (dove compone un brillante sodalizio con Matteo Spinola, poi elegante principe della promozione cinematografica), il cinema di scuola felliniana (il Grande Riminese sarà il suo mentore all'esordio nella regia). In più ha nel bagaglio due maestri d'eccezione come Garinei & Giovannini che la porteranno in tv per una fortunata edizione di "Canzonissima". In questo crogiuolo di esperienze si va formando un talento originale e, paradossalmente, senza una sola discendenza artistica.
Quello di Lina è un linguaggio spregiudicato, in anticipo sui tempi, capace di portare la commedia sui sentieri dell'assurdo e, insieme, di restare legato alla realtà di un paese che cambia e scopre il benessere del boom. Il suo esordio con "I basilischi" (1963) è un esplicito omaggio a "I vitelloni" di Fellini ma, fin dall'ambientazione in un Sud a lei ben noto (il film fu girato in gran parte a Palazzo San Gervasio nel potentino da cui veniva la sua famiglia), parla di un'altra Italia, solare e disincantata che tornerà spesso nella sua narrazione del mondo. Non a caso la motivazione dell'Oscar alla carriera che nel 2020 confermò il prestigio internazionale che l'Academy le attribuiva fin dalla nomination come migliore regista (prima donna in assoluto a ottenere l'attenzione di Hollywood nel 1977 per "Pasqualino settebellezze") recita: "per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa".
Oggi ci lascia in eredità 23 film, alcuni dei quali sono pietre miliari del costume ("Mimì metallurgico…", "Travolti da un insolito destino…") e altri perfetta incarnazione di un'idea colorata e attraente dell'Italia ("Sabato, domenica e lunedì" e il sodalizio con l'amica adorata Sophia Loren). Ma il tratto in fondo più originale è la spregiudicata libertà delle sue scelte: debutta col cinema d'autore, ma subito dopo non si fa scrupolo di provarsi (sotto pseudonimo) con lo spaghetti western ("Il mio corpo per un poker" con Elsa Martinelli) per far capire ai produttori che la regia è anche mestiere da donna; scopre la vena istrionica di Rita Pavone, la collauda in un paio di "musicarelli" e poi la esalta nel memorabile "Giornalino di Gianburrasca" girato per la televisione tra il 1964 e il 1965.
Raggiunto il successo nel decennio d'oro degli anni '70, vira ancora verso il racconto surreale ("La fine del mondo nel nostro solito letto", 1978); si dedica a Napoli e alla sua cultura prediletta, ma il suo grande ritorno viene in accordo col genovese Paolo Villaggio per "Io speriamo che me la cavo" (1992). Disgustata dalla disattenzione della distribuzione tradizionale, abbraccia nuovamente il racconto televisivo alle soglie degli anni Duemila, ma dopo il David di Donatello alla carriera del 2010 depone le armi e si ritira in un dignitoso silenzio. Un vero peccato perché la sua verve è viva fino all'ultimo giorno e dal suo carniere avrebbe potuto estrarre altri gioielli.
"Ho sempre avuto un carattere forte, fin da piccola - raccontava Lina Wertmueller- . Sono stata addirittura cacciata da undici scuole e sul set ho sempre comandato io".
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