Riproponiamo un articolo di Anna Mallamo tratto dall'inserto speciale pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 28 dicembre 2008, in occasione del centenario del terremoto del 1908 di Messina e Reggio Calabria.
L'intero speciale, a cura di Anna Mallamo, è disponibile qui.
Dormivano, Reggio e Messina. Un sonno di città non particolarmente giuste, né particolarmente felici. Dormiva la Palazzata, il Teatro marino che qualcuno chiamava “ottava meraviglia del mondo”, facendo in questo un torto allo Stretto, meraviglia suprema di mari e terre, luogo di misteri e di poesia, sublime, con tutto quel che di pericoloso e inquietante il sublime per sua natura evoca e contiene. Dormiva Messina, città assieme speranzosa e decaduta, piena di slanci e fermenti eppure sempre tentata dal suo “vivere sul bagnasciuga” – come, molti anni dopo, avrebbe scritto una sua notevole poetessa. Dormiva Reggio, che non aveva di Messina la grandiosità e nemmeno la trascorsa fortuna, pur essendo da sempre la prima città calabrese per lignaggio, storia antica e popolazione. Terre inquiete, travagliate nei secoli dalla natura e dagli uomini, posate su un mare verticale e vertiginoso, possedute da dèi vendicativi incarcerati nei basamenti segreti dell’isola e dello Stretto, pronti a dare con generosità – tesori, cibo, bellezza, mito – e a riprendersi tutto. Reggio, addirittura, porta nel nome – da rhegnymi, “rompere”– l’eco d’antiche fratture, di cicatrici immense nella pelle più vecchia della Terra. Dormivano, Reggio e Messina, città gemelle e dissimili, accomunate dal loro mare chiuso e verticale, il loro mare prodigioso, madre e nemico. Era l’alba del secolo breve, che veniva carico d’elettricità: proprio da pochi giorni a Reggio s’era inaugurato l’impianto di pubblica illuminazione, che rischiarava le sue strade ordinate, rafforzava il suo chiarore marino, la sua fiducia nel futuro. Messina, più barocca e opulenta, sebbene con qualcosa di decaduto, era più grande, più morbidamente distesa oltre la sua miracolosa falce naturale, offrendo ai venti salati del mare e agli sguardi di chi solcava il braccio dello Stretto convinto di star compiendo un rito magico (la stessa sensazione che ancora oggi, malgrado tutto, si prova) la sua abbagliante Palazzata, come se s’entrasse in un tempio: vera Porta sacra dell’Isola. Sotto Reggio e Messina, sotto le acque dei due mari, le rocce profondissime continuavano a combattere la loro lotta millenaria. Un orologio impreciso ma inarrestabile – è stato scritto – funziona da sempre, da quando le terre si formarono ed emersero dal mare, sotto lo Stretto, dove passa la faglia di Messina. È una contesa senza fine tra lo Stretto e le montagne, quelle calabresi d’Aspromonte, quelle siciliane dei Peloritani. Si combatte dove non possiamo vedere, nelle profondità del mare e della terra. Le forze s’accumulano negli anni, nei secoli, e quando l’energia è al suo culmine avviene il dramma sotterraneo e segreto, di cui il terremoto è espressione distruttiva di superficie. Se potessimo vederlo «come un filmato velocissimo», vedremmo come una pulsazione, un respiro. L’oscillazione è al suo limite, la forza accumulata lentissimamente nel corso di più d’un secolo ora è prossima a liberarsi in un urto poderoso e micidiale: i muscoli della terra, gli strati di roccia profondissimi sotto lo Stretto stanno per tendersi e scaricare l’energia. Il punto di rottura arriva all’alba del 28 dicembre 1908: alle 5,20 minuti e 27 secondi un movimento gigantesco si origina da un punto profondo nel cuore dello Stretto. Un moto dapprima sussultorio, poi ondulatorio, infine vorticoso: in 31 secondi si compie sulle due sponde la tragedia più grande che la storia del territorio, pur così fitta di sventure, ricordi. Le onde sismiche attraversano la roccia cristallina, gli strati alluvionali e sabbiosi su cui sorgono gran parte degli edifici. Attraversano il mare, spostandosi a velocità incredibile. Attraversano le città addormentate, la pietra e il marmo con cui esse avevano tratto dalla Storia la loro forma attuale, modellandola e incidendola come una coppa. Esplodono, infine, in vortici di distruzione che polverizzano edifici, vite, storie. Moltissime vite: ancora oggi non sappiamo quante. Dalle prime stime prudenti delle autorità ai dati scarni delle anagrafi, pur esse terremotate, a stime più recenti, forse più esagerate: 30mila, 60mila, 100mila. Non sapremo mai davvero. Dieci minuti dopo – ma il tempo di quella notte non è calcolabile con strumenti umani – un maremoto investì le macerie e i sopravvissuti in fuga: il mare bulimico di Cariddi ristabilì il suo vecchio predominio. Un terremoto è sempre (anche) un’enorme ferita simbolica. Un precipitare di punti di riferimento, che non sono solo le strade, ma i loro nomi, la geografia del consueto che orienta la nostra vita quotidiana. L’atroce spaesamento dei sopravvissuti cominciò dentro le loro stesse case, trasformate da rifugi in trappole, oppure scoperchiate oscenamente – vediamo ripresi più e più volte, dagli obiettivi di mille fotografi, edifici aperti come case di bambole, con gli interni integri eppure straziati (la carta da parati, la specchiera appesa nel vuoto, il lampadario di vetro intatto), come le vite che avevano contenuto – e nelle strade più familiari, improvvisamente diventate cumuli informi, senza nome e senza direzione. Il rimescolamento delle vite, il disorientamento, la perdita della città, del suo corpo materno, fu la tragedia e la ferita più grande, tanto che ancora si dice che queste terre ne soffrano, come soffrono la periodica cancellazione della memoria: eppure sono luoghi incontestabilmente antichi, dove s’avverte il deposito di senso, storia, passato. Quel che difetta, dunque, potrebbe essere il modo d’appropriarsene, di coltivarla e farla crescere: la memoria, insegnano gli psicologi, non è archivio ma creatività, intenzione. In una parola “ricostruzione”. “Catastrofe” in greco – che fu lingua originaria di queste terre e ancora risuona negli accenti nei nomi e negli etimi – vuol dire “rivolgimento” : la realtà si capovolse, ciò che era custodito (valori, intimità, beni, affetti) venne esposto, ciò che viveva fu sepolto e ciò che era sepolto affiorò alla luce. Il caos prese il posto dell’ordine. E improvvisamente anche il mare divenne più sicuro della terraferma. La terra, la pietra erano traditrici e insicure, cariche di morte: la gente cercò la salvezza sul mare. E le “città di legno” che presero subito il posto delle città di pietra furono, prima che nelle baracche, a bordo delle navi: città oscillanti, di pali e antenne e corde e alberi maestri, che pure divennero rifugi e ospedali e uffici e caserme. Da bordo delle città d’acqua – si legge nei primi reportage, avvincenti come romanzi – s’osservavano le rovine ondose delle città di pietra, infinitamente più pericolose del mare, col loro carico d’annegati nelle macerie, di tesori nascosti, di storie inabissate. Con le loro mareggiate di pietra, quando le repliche del sisma (furono centinaia nei mesi successivi) tornavano a fare paura, a distorcere ancora il volto già sfregiato delle città. La storia del terremoto – secondo gli studiosi non ancora scritta del tutto – e le storie del terremoto: “catastrofe” è “rivolgimento”, ma anche “riavvolgimento”. Intreccio. E dalla catastrofe, come da un omphalos, un ombelico sacro, sgorgano una quantità di narrazioni: a cominciare dalle parole dei sopravvissuti, che ci scopriamo a bere avidamente, col loro spaesamento spaziale e temporale, la loro eccezionalità e assieme la loro “banalità” (etimologicamente “banale” vuol dire comune, di tutti). E poi le leggende, le mitologie – buone e cattive: la Regina pietosa e gli sciacalli, l’ottimo fondatore di Michelopoli e gli speculatori della Borsa, i contadini malvagi e le nobildonne ferite – i racconti familiari tramandati o rimossi, ma oramai “narrati”. Accanto al terremoto fisico e storico, al terremoto delle cifre e dei numeri, c’è un terremoto pensato e narrato, una terribile occasione mitopoietica che non smette, un secolo dopo, di produrre i suoi effetti. I morti narrati che s’affacciano irresistibilmente alla nostra immaginazione (la fanciulla rimasta appesa per la veste al balcone, la madre sotto la pioggia di sangue dei figli, la famiglia di scheletri a cerchio attorno alla croce, scoperti mesi dopo durante gli sgomberi... ), e i morti enumerati, le vittime definitive sepolte senza nome nelle fosse comuni, poi nelle statistiche, infine in un solo totale. E c’è un catalogo delle morti, dei modi e delle forme della morte, che si vuol assumere come rivelatore: si disse, dopo il 1908, quel che s’era detto dopo il 1783, ovvero che gli uomini morti sotto le macerie si trovavano generalmente nell’atto «di liberarsi con forza dal pericolo», le donne invece con le mani sul capo in segno di raccolta disperazione e resa (a meno che non avessero accanto bambini, allora erano invariabilmente protese a proteggerli). La morte – in una atroce Spoon River dello Stretto – libera un intero tessuto esemplare e simbolico d’una vita, la “compie”, la rivela e la invera. L’occhio dei superstiti, in realtà, «interpreta e norma i ruoli», ridà direzione a valori e simboli. I superstiti narrano, “intrecciano”. Un secolo dopo, le “narrazioni” non si sono ancora interrotte, a onta di chi parla di memoria fuggitiva. Sì, il terremoto è epoché, sospensione e cesura della storia, da cui si fanno dipendere, ancora, tanti tratti del presente (e l’ipotesi “genetica”, d’una mutazione del Dna dovuta al sisma, al di là della validità scientifica, talora viene con forza ribadita in risposta a un bisogno tutto psicologico d’affermare la differenza, forse di sorreggere un alibi). Queste non sono terre senza memoria: son troppo antiche per essere smemorate. Ma forse il loro ristare sull’orlo dell’abisso, la loro periodicità di distruzione (i conquistatori d’ogni razza, la peste – quella “nera” del 1348 che spopolò l’Europa partì proprio da Messina – i terremoti d’ogni secolo) danno «l’impressione che la realtà stessa sia provvisoria, e che la fine si possa annunziare da un momento all’altro». Le terre di Scilla e Cariddi, però, han sempre saputo convertire il male in mito, il dolore in bellezza. Non è un talento che si può perdere. Come non si può perdere la memoria: essa è scritta attorno e dentro di noi. S’impari, piuttosto, a rileggerla.