Mercoledì 25 Dicembre 2024

Terremoto 1908, storia del “miracolato” Cicciareddu: il bimbo di 4 anni estratto vivo dalle macerie a Reggio

 
Terremoto 1908, Soldati e bersaglieri estraggono dalle macerie un ragazzo a Messina

Riproponiamo un articolo di Anna Mallamo tratto dall'inserto speciale pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 28 dicembre 2008, in occasione del centenario del terremoto del 1908 di Messina e Reggio Calabria.

L'intero speciale, a cura di Anna Mallamo, è disponibile qui.

 


  Un miracolo. Fu salutato come un miracolo, a Reggio, il ritrovamento di Francesco Neto, “Cicciareddu”, il figlioletto di appena quattro anni di Domenico, il portinaio dell’on. Demetrio Tripepi. Il palazzo in cui viveva, in via Tribunale, s’era sbriciolato, seppellendo decine di persone, tra cui la moglie e i figli del deputato – che fu gravemente ferito e spirò mentre veniva portato, adagiato su un materasso, alla Marina (pare che fosse attorniato dai parenti, i quali però, a una violenta replica, fuggirono lasciandolo solo, e che l’illustre infermo, sentendo la fine, avesse esclamato: “Ora posso morire”) – e la stessa madre del piccolo Francesco, che era morta subito dopo la scossa fatale, con la gola squarciata dalla scheggia d’una trave. Il padre di Francesco, ferito, era riuscito a salvarsi, e per giorni aveva pianto la moglie e il figlioletto, il cui corpo non s’era trovato nella montagna di macerie. Ma il piccolo non era morto: era sprofondato molti metri sottoterra, pare dentro una grotta naturale di cui non si conosceva l’esistenza, con tutto il sottoscala nel quale dormiva. Coperte e materasso gli avevano fatto da riparo e lo avevano protetto dal rovinìo di travi e calcinacci. Nel pomeriggio dell’11 gennaio 1909 – erano ormai trascorsi 14 giorni da quell’alba fatale – il tenente colonnello Corapi, passando per via Fata Morgana, sentì una donna, una parente, che parlava del piccolo Francesco, creduto morto e il cui corpo non era stato recuperato. La donna raccontava d’averlo sentito piangere per un poco, poi più nulla. Lei s’era messa in salvo, era partita dalla città distrutta, aveva accompagnato a Napoli una sorella ferita ed era tornata: troppi giorni erano passati. Eppure, il dubbio restava, o la speranza. L’ufficiale chiese alla donna dove poteva trovarsi, in quel mucchio di macerie, le cameretta dov’era il bimbo, e lì si mise a chiamare a gran voce il bambino, in dialetto reggino: «Cicciareddu? Cicciareddu...?». Gli rispose una vocetta, fioca e tremante. Cicciareddu era vivo! «È vivo, è vivo» gridarono il colonnello e la donna, e subito chiamarono la squadra di pompieri che, ormai, non operava più salvataggi: sotto le macerie non resisteva più nessuno, dopo tanti giorni. Lavorarono alacremente, e infine aprirono uno stretto passaggio attraverso cui un pompiere parecchio mingherlino, tale Ernesto Polaggio, potè passare e riportare alla luce, dopo 14 giorni, il bambino. Cicciareddu fu estratto incolume, e – raccontano le cronache del tempo – vispo e in discrete condizioni. I medici dell’ospedale della via Marina lo visitarono e gli chiesero come avesse fatto a resistere e nutrirsi in tutto quel tempo. Il piccolo rispose, limpido, che era stata la mamma a nutrirlo, dandogli «pane e mandarini». La madre ch’era morta quasi subito, dissanguata! Cicciareddu, dopo aver urlato nel buio a lungo, s’era addormentato, e aveva trascorso quelle due settimane da solo, dormendo moltissimo e mangiando quel che aveva trovato vicino a sé, nelle rovine del sottoscala, dove la famiglia aveva la dispensa: aglio, fichi secchi e mandarini. «Allucinazione, o miracolo, come molti dei superstiti dicono», si legge nelle cronache dell’epoca. O forse tutti e due: il miracolo fu la potenza della mente infantile, che creò quella che si può definire – come diremmo oggi – una «fantasia protettiva», la sola che poteva aiutare il bambino a sopravvivere in quelle condizioni d’isolamento e terrore. Ma per una storia a lieto fine ce ne furono tante che ci restano oscure, e che si conclusero tragicamente. Una polemica ricorrente al tempo riguarda proprio il popolo dei sepolti vivi, una gran parte dei quali fu condannata dall’inefficacia dei soccorsi. E la discussione sul numero delle vittime che, con interventi più organizzati, si sarebbero potute salvare si trascinò ancora a lungo: dalla stima di 20 mila fatta dall’on. Giuseppe De Felice (nella seduta straordinaria della Camera dei Deputati del 9 gennaio 1909) a quella di 10 mila vite, come si legge nella relazione dell’addetto militare inglese Delmé-Radcliffe. Eppure, in tanti casi anche le previsioni più audaci furono sconfessate dai fatti: persone vive, per quanto malconce e provate, continuarono per giorni ad essere estratte dalle macerie, contraddicendo ogni previsione (e anche ogni ipotesi, che pure era stata formulata, di cannoneggiamento delle macerie...).

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