Giovedì 21 Novembre 2024

Al Mudec di Milano in mostra Mondrian prima di Mondrian

Composizione II (1929). Olio su tela
Composizione con linee e colore III (1937). Olio su tela
Mare dopo il tramonto (1909). Olio su cartoncino
Piccola casa al sole (1909). Olio su tela)
Studio pointilliste di una duna con crinale a destra (1909). Olio su tela
Tableau n. 4 / Composizione n. VIII / Composizione 3 (1913). Olio su tela
Autoritratto (1918). Olio su tela
Mulino a vento di sera (1917). Olio su tela
Devozione (1908). Olio su tela
Fosso vicino alla fattoria Landzicht (1900). Olio su tela

Piet Mondrian (Amersfoot, 1872 – New York, 1944) ha sempre qualcosa di misterioso. Anche quando il suo celebre neoplasticismo, fatto di linee rette, angoli, colori primari e nero, dovrebbe riportarci alla semplicità delle cose. In realtà lui perseguiva come obiettivo la possibilità di dipingere l’essenza, di tutto. Un traguardo che ha raggiunto, ma, appunto, lontano dalla semplicità che potrebbe apparire al primo sguardo. La sua straordinaria arte di realizzare dipinti diversi con gli stessi, pochi, elementi diventa significato della capacità dell’essenza (della natura come dell’uomo) di moltiplicarsi all’infinito, pur utilizzando soltanto alcune elementi base. Ad aprire un ampio squarcio su questo “mistero” è la mostra “PietMondrian. Dalla figurazione all’astrazione”, ospitata al Mudec di Milano fino al 27 marzo. Prodotta da 24 Ore Cultura – Gruppo 24 Ore, promossa da Comune di Milano – Cultura, è stata realizzata grazie alla collaborazione con il KunstmuseumDenHaag dell’Aja, che ospita la più importante collezione del pittore olandese nel mondo, e che ha prestato 60 opere. Su progetto del suo direttore Benno Tempel, e curata da Daniel Koep e DoedeHardeman, l’esposizione ci fa vedere l’evoluzione di Mondrian, che nasce come pittore prevalentemente di paesaggi, da un accentuato realismo agli sviluppi provocati da un’inesausta sperimentazione (che passa da espressionismo, simbolismo, luminismo, cubismo e altro ancora) fino a diventare uno dei padri fondatori, insieme con Kandinskij e Malevic, dell’astrattismo. Questa progressione visiva che la mostra sviluppa molto bene, anche mettendo a confronto le opere di Mondrian con quelle dei suoi contemporanei olandesi, ripaga dalla delusione di vedere esposte soltanto tre opere legate al neoplasticismo, ovvero il periodo più famoso. Viene da immaginarlo, negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, percorrere le piatte campagne olandesi, con il cavalletto sulla bicicletta, pronto a dipingere, in maniera sempre più personale, mulini a vento, fari, fossati e case di campagna. A poco a poco i colori si riducono, la prevalenza di grigio, cara ai suoi colleghi, sparisce, e c’è il primo evidente approccio all’uso di pochi colori, quelli che in vari passaggi diventeranno gli unici protagonisti del neoplasticismo. Il passaggio ha qualcosa di mistico, di una trascendenza però sostanzialmente umana e naturale oltre che spirituale (l’artista si era appassionato agli studi di antroposofia di Steiner), che è davvero quella ricercata penetrazione nell’essenza. È un percorso da realista naturalistico a realista astratto, come conferma la sua celebre frase: «Per me non c’è differenza tra i primi e gli ultimi lavori: fanno tutti parte della stessa cosa. Io non sento la differenza tra il vecchio e il nuovo nell’arte come una vera differenza, bensì come una continuità». Continuità evidente nel percorso della mostra: sono soprattutto alcune opere, secondo me, a essere cardini dei suoi passaggi verso l’astrattismo. Mi riferisco al ben noto “Albero rosso” (1908 – 1910), purtroppo visibile solo nel bel catalogo, “Mulino Oostzijdse con cielo blu, giallo e viola” (1907 – 1908), “Piccola casa al sole” (1909), “Faro a Westkapelle” (1910). Se già “Mulino a vento di sera” (1917) è disvelatore di quelle che da lì a poco sarebbero state le scelte di Mondrian, in mostra colpisce molto “Devozione” (1908). È il ritratto di una ragazza dai capelli rossi e con un’espressione intensamente spirituale, legato al breve periodo degli influssi simbolisti, che, nella sua netta prevalenza del rosso, sembra trovare una via d’arrivo all’essenza tanto ricercata. L’opera, sì figurativa, ma nettamente staccata da ogni tradizione, colpì negativamente i critici olandesi che, come ci dicono i curatori, parlarono di «visioni di una persona disturbata». Andando oltre il lecito di un’ipotesi interpretativa, vien da pensare che lo sguardo intenso di quella ragazza sia davvero il simbolo della ricerca di Mondrian. In mostra troviamo poi la prima opera autenticamente neoplastica, “Tableau I, Composizione con rosso, giallo e blu” (1921). Non più le griglie regolari dei primi tentativi, ma varie forme geometriche che si sviluppano con un ritmo ricco di variazioni. È qui l’analogia che l’artista trovava fra le sue creazioni e la musica jazz: «Entrambi fortemente organizzati – dicono ancora i curatori –, lasciavano spazio alla rottura e all’improvvisazione». Nel suo studio di Parigi e nelle serate fuori casa, il jazz divenne la sua fonte di ispirazione, tanto che non sopportava i vicini che mettevano ad alto volume i dischi con le composizioni di Beethoven. E sempre la musica sin dai titoli rimase alla base anche dell’ultimo periodo vissuto a New York: “Victory Boogie Woogie” (1942 – 1944), purtroppo non in mostra, adotta una forma romboidale per dare un altro ritmo alla successione di geometrie (molto più varie) e colori (sempre quelli primari). Una nuova ricerca che la morte, a 72 anni, gli impedì di portare a termine. L’ultima parte della mostra, curata da Domitilla Dardi, ripercorre l’influsso del neoplasticismo sul design, partendo dalle creazioni del gruppo olandese De Stijl, fondato nel 1917 e sostenitore dell’arte astratta, in cui gli architetti si proponevano di unire arte e vita moderna. Tutte le opere di Mondrian potevano ispirare applicazioni pratiche. D’altra parte, lui diceva: «Non ho mai dipinto in modo romantico; fin dall’inizio, sono sempre stato un realista».

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