Non è certo un caso che a ideare il personaggio di Wonder Woman, oggi ottantenne di successo fra fumetti, tv e cinema, sia stato nel lontano 1941 uno psicologo, William Moulton Marston. Non solo perché la sua guerriera precede quella descritta nel celebre libro “Il viaggio dell’eroina” della psicoterapeuta junghiana Maureen Murdock, ma soprattutto per la capacità di fare del suo personaggio “straordinario” sia un’emulatrice degli archetipi della mitologia greca sia una precorritrice di un femminismo vincente e sicuro, ma che comunque ha sempre bisogno di lottare per affermarsi veramente.
È così che una mostra celebrativa ha anche il valore di testimonianza del nostro tempo, dove anche ciò che sembra conquistato e che dovrebbe essere ovvio e scontato ha bisogno di tutte le “armi” usate dalla figlia della regina delle Amazzoni. Proprio in occasione dei festeggiamenti del suo ottantesimo anniversario e della campagna internazionale #believeinwonder, 24 Ore Cultura – Gruppo 24 Ore, in collaborazione con Warner Bros. e DC, celebra l’anniversario dell’eroina-pioniera con la mostra “Wonder Woman. Il mito”, curata da Alessia Marchi con il contributo di Maurizio Francesconi, eospitata a Milano nella sede di Palazzo Morando | Costume Moda Immagine, fino al 20 marzo.
Dai disegni (il primo illustratore fu Harry G. Peter) ai costumi di scena della serie tv con Lynda Carter e dei film interpretati da Gal Gadot, dalle armi dai combattimento ai più banali (ma pur significativi di un successo mondiale) mirabilia, il percorso espositivo, arricchito da video e musiche nell’intento di creare un clima immersivo, ci dimostra comunque come siano perfette le prime parole con cui Marston presentò il suo personaggio: «Bella come Afrodite, saggia come Atena, con la velocità di Mercurio e la forza di Ercole, è conosciuta solo come Wonder Woman».
Una risposta all’avvento di Superman, nato nel 1938, e che trova le sue radici del clima estremamente femminista in cui viveva il suo autore.
Secondo Marston, infatti, il personaggio doveva servire come «propaganda psicologica del nuovo tipo di donna che, io credo, dovrebbe governare il mondo», e una delle frasi più famose che le fa dire è: «Io non inizio una guerra. Io la finisco». La cosa quasi impensabile è che Marston, che per inciso aveva anche inventato la macchina della verità, viveva in una sorta di harem, cioè quanto di più apparentemente maschilista si possa immaginare. L’andamento interno di questo inconsueto ménage, mantenuto su un profilo basso perché comunque ritenuto scandaloso, con molta probabilità vedeva le donne in una posizione di privilegio, consentita dalla convinzione dell’unico uomo che il femminile fosse superiore.
Quando “nacque” Wonder Woman, Marston e la moglie Elizabeth Holloway avevano lasciato l’insegnamento ad Harward e si erano ritirati sull’isola di Man, stabilmente insieme con Olive Byrne, conosciuta all’Università, e di tanto in tanto con Marjorie Wilkes, bibliotecaria vedova. Nessuno sa veramente come funzionava il tutto, pur se viene accreditata anche una relazione stabile fra Elizabeth e Olive, più volte poi smentita da una nipote di Marston. Comunque sia, ciò che è certo è che le donne erano attiviste femministe, che ambedue diedero figli a William, che lui morì molti anni prima di loro e che, dopo la sua scomparsa, le due donne e i figli dell’una e dell’altra continuarono a vivere tutti insieme. Fatto sta che in una situazione così inconsueta, la derivazione femminista del triangolo è fortissima, anche perché marito e moglie avevano avuto occasione di ascoltare nel 1928 ad Harward (evento straordinario perché ancora le donne non erano ammesse a parlare in quell’università) un discorso di Emmeline Pankhurst, famosa leader delle suffragette inglesi.
Grazie a tutto questo retroterra le caratteristiche di Wonder Woman sono vincenti. Ma sempre con grandi difficoltà, come la mostra racconta. Dopo la morte di Marston nel 1947, nel dopoguerra i fumetti sono severamente criticati, censurati e banalizzati. Accade così che Wonder Woman perda i suoi poteri e diventi solo una specie di investigatrice. Le cose cambiano negli anni Settanta, non a caso con la riaffermazione del femminismo: il personaggio torna alle origini e si riappropria del suo costume di guerriera.
È ancora una donna, Janette Kahn, allora presidente della DC (la casa editrice), che decide di far riscrivere le storie di tutti i personaggi, una sorta di biografismo particolareggiato che mette ordine nelle storie che si erano succedute fino a quel momento. Per Wonder Woman torna il pieno successo, confermato ancora oggi dalla televisione e dal cinema. Interessante il contributo di disegnatrici e disegnatori italiani, quali Marco Santucci, Emanuela Lupacchino, Maria Laura Sanapo e Mirka Andolfo. Gail Simone, che dal 2007 scrive le storie del personaggio, rimanendo legata all’universo iniziale di Marston, riassume così le caratteristiche dei supereroi della DC: «Se devi fermare un asteroide, chiami Superman. Se devi risolvere un mistero, chiami Batman. Ma se devi porre fine a una guerra, chiami Wonder Woman». Ecco riaffermata la superiorità del mondo femminile in cui credeva il suo creatore.
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