Sullo sfondo del conflitto tra Russia e Occidente che ha come tragico terreno l’Ucraina, si staglia forte la presenza di un “convitato di pietra”, sempre meno di pietra e sempre più vitale – economicamente e politicamente – che tutti i contendenti corteggiano, sapendo che il suo peso, inclinando dall’una o dall’altra parte, può diventare determinante per il futuro del mondo: la Cina.
Anzi, anche la sua momentanea acquiescenza, apparentemente neutrale, influisce sugli equilibri internazionali. La verità, probabilmente, sta nel fatto che la grande nazione orientale punti le proprie fiches solo su se stessa. Per capire meglio questo fenomeno, destinato a cambiare la storia, serve (e molto) la mostra (aperta fino al 3 luglio) che il Mudec di Milano dedica ai due reportage che il grande fotografo francese Henri Cartier-Bresson (1908 – 2004), non a caso definito “Occhio del secolo”, ha dedicato alla Cina in due momenti fondanti, che stanno alla base di quello che oggi è diventato un Paese determinante sugli assetti mondiali. Il primo si riferisce a “La caduta del Kuomintang”, cioè la vittoria comunista nella guerra civile cinese, e si svolse tra il 1948 e il 1949; il secondo al “Grande balzo in avanti di Mao Zedong”, nel 1958.
La mostra “Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-49 | 1958”, prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, promossa dal Comune di Milano-Cultura e curata da Michel Frizot e Ying-Lung Su, è stata realizzata grazie alla collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson e riunisce un eccezionale corpus di fotografie e documenti di archivio: oltre 100 stampe originali insieme con pubblicazioni di riviste d’epoca, documenti e lettere provenienti dalla collezione della Fondazione.
La cosa straordinaria, messa in evidenza dai curatori, è come Cartier-Bresson abbia colto (e tramandato) «temi importanti del cambiamento nella storia contemporanea cinese, riuscendo a presentare al mondo occidentale anche aspetti tenuti nascosti dalla propaganda di regime come lo sfruttamento delle risorse umane e l’onnipresenza delle milizie». Fra i due reportage c’è una differenza importante, anche se Cartier-Bresson riesce a essere sempre in grado di cogliere il cosiddetto «istante decisivo», caratteristica per la quale è diventato celebre.
Nel primo il fotografo è libero di cogliere ogni aspetto di una società sottoposta a un cambiamento radicale, nonostante sia rimasto bloccato a Shanghai per diversi mesi, con quella sua capacità innata di cogliere anche il mondo interiore, o comunque l’umanità, dei soggetti che riusciva a ritrarre. E direi anche la spiritualità che, proprio in Cina, affonda in una tradizione millenaria importantissima. Nel secondo viaggio, invece, Cartier-Bresson è costantemente accompagnato da una guida che lo controlla e che, soprattutto, lo indirizza solo nei luoghi scelti dal regime di Mao per raccontare la nuova industrializzazione e i cambiamenti in agricoltura. Neppure le sue note simpatie comuniste lo esentano da una costante marcatura.
Eppure, per fare un esempio, basta la foto di donne cinesi davanti a un negozio di biciclette per dare l’idea di uno spaccato sociale più chiaro di tanti saggi. Oggi, certo, la Cina è cambiata: eppure quelle immagini lontane riescono a farcela comprendere.
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