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Scopriamo la verità assieme a Edipo. A Siracusa nel segno dell'essenzialità FOTO - VIDEO

Sta tutto lì, nel ticchettìo di quel bastone. Quando la tragedia si è già compiuta – e noi, il pubblico, l’ “altro coro” di cittadini, opposto e speculare, l’abbiamo appreso come se non lo sapessimo da prima, da sempre – e Edipo, spogliato d’ogni cosa, della regalità e del potere come di ogni certezza e sapere, intraprende il cammino dolente, faticoso, in salita e alla rovescia, della sua nuova vita da cieco, da esule, da reietto, e s’appoggia sullo stesso nodoso bastone che aveva lasciato in scena l’altro cieco, quello veggente, Tiresia.

Cinquemila persone (quasi la metà giovanissimi) e non un fiato, non una sillaba: il teatro greco di Siracusa, il suo grande catino di pietra, in perfetto silenzio, riempito solo da quel ticchettìo, e tutti gli sguardi su di lui che non ha più occhi, tutti gli animi annodati nello stesso singulto, come voleva Sofocle duemila e cinquecento anni fa. Si conclude così, con quel silenzio «intimo, concentrato, potente», prima che esplodano la catarsi e gli applausi, il magistrale “Edipo Re” del regista canadese Robert Carsen, alla sua prima volta siracusana, che ha debuttato mercoledì per il 57. ciclo di rappresentazioni classiche della Fondazione Inda.

È nudo (letteralmente) Edipo, di fronte alla verità che non è principio di ordine e consolazione ma di sconvolgimento e dolore; è nuda la scena, una sola scalinata di scabra, “brutalista” materia prima, monolite di calcestruzzo drizzato fino al bordo del cielo (opera pregevole di Radu Boruzescu); è nuda la parola, ma proietta, nella luce cruda della scena, le sue ambiguità e le sue ombre, tanto che il dialogo – strumento principe del logos, vera arma dei Greci dialettici e magnifici, del “sapiente Edipo” che sa sciogliere tutti gli enigmi tranne uno – è, assieme, la lente che mette a fuoco e il diaframma che oscura, è la gragnuola di domande (due terzi dell’opera, fateci caso, magari rileggendola nella bella traduzione di Francesco Morosi) e il nascondersi delle risposte dentro l’affastellarsi d’altre parole, è la beffa della ragione umana (Freud, che più di tutti ha studiato il mito di Edipo, ha descritto e certificato il lutto della ragione, il suo abdicare necessario di fronte agli abissi, all’intimo buio umano).

È nudo, lineare – nella sua semplicità ingannevole – il percorso ineluttabile che ci porta a una cosa più spaventosa della peste che affligge la città di Tebe (ma il riferimento alla pandemia, a parte le mascherine nere indossate dal coro alla sua prima apparizione, semplicemente non ha motivo d’esistere: siamo su un altro piano, fuori dalla storia, dentro l’umano perenne). Una cosa più spaventosa del vecchio male che la affliggeva, la Sfinge alata. Quella cosa spaventosa e senza palpebre che è la verità, la beffa suprema della verità, che solo l’«ironia tragica» – sublime ossimoro – riesce a porgerci nella forma d’una tragedia esemplare, come da sempre è considerato l’Edipo sofocleo.

Ironia tragica è sapere da subito, dall’apparire di Edipo in cima alla scalinata (lui che l’ha scalata, che è arrivato lassù al trono grazie al suo ingegno), che il colpevole che cerca è lui, che l’empio che rende impura la città, patricida e sposo della propria madre, è lui, l’affabile, l’empatico Edipo, il benevolo padre dei suoi Tebani («Figli» è la prima parola del dramma, un dramma di padri e di figli confusi tra loro): l’Edipo sostenuto (magnificamente, con una prova d’intensità fisica quasi dolorosa) da Giuseppe Sartori è sollecito e accorato, è nitido e persino luminoso, monarca razionale e vicino al popolo (almeno quanto l’Agamennone di Davide Livermore è distante e chiuso in sé: i due spettacoli sono davvero opposti estremi, per la gioia di noi spettatori).

Ironia tragica è saperlo eppure partecipare alla scoperta della verità, assieme al Coro, ottanta attori che sono folla convulsa e unico corpo: velati di nero (con la suggestione di riti funebri antichi e universali, ma estremamente “parlanti” a noi meridionali), le sole mani a spezzare il cromatismo rigoroso del nero e del bianco (che si scambieranno di posto, come il buio con la luce, l’ignoranza con la consapevolezza). Le mani, per Aristotele «strumento di strumenti», a dirci comunque tutto. Siamo un po’ noi, quel Coro che esulta e si sgomenta, si vela e si scopre. Tanto che c’è stato un momento, alla prima, in cui, allo svelarsi dell’ennesimo indizio, s’è levato dal pubblico un «ohhh» di stupore: come se non sapessimo, come se apprendessimo in quel momento. Carsen, d’altronde, lo dice, nelle sue note di regia: «Loro sono noi, noi siamo loro, ed esprimono le nostre paure, la nostra confusione, le nostre preoccupazioni e preghiere».

E tanta nudità, tanta esemplare chiarezza è frutto d’un lungo lavoro di scavo e concentrazione, è opera «per via di levare»: siamo appesi al solo filo della parola, durante i dialoghi di Edipo che incalza Creonte (il limpido Paolo Mazzarelli); che accusa ingiustamente Tiresia (un formidabile Graziano Piazza, reso davvero cieco dalle speciali lenti a contatto, e davvero veggente dal fuoco intimo delle sue parole trattenute, dal dono nero della sua profezia); che è blandito da Giocasta (Maddalena Crippa, splendida, incarna con equilibrio e sapienza un femminile materno e protettivo, s’adopera per non sovrastare il marito ma indirizzarlo, comprende prima di lui la verità che, vediamo, la spezza).

Siamo appesi alla parola nel dialogo-duello, egregiamente condotto, tra due personaggi quasi speculari: il messaggero (Massimo Cimaglia) e il servo di Laio (Antonello Cossia). Siamo appesi alla parola quando risuona nel coro. E solo lì affiora la musica di Cosmin Nicolae, “astorica” e “atemporale” almeno quanto i costumi, genericamente moderni, di Luis F. Carvalho. Il coro che ci affascina per la naturalezza dei suoi movimenti di stormo (coreografie di Marco Berriel), la sua capacità di comporre le individualità in un corpo comune, in una voce sola (assieme al capo coro Rosario Tedesco e alla responsabile Elena Polic Greco).

Seguiamo i percorsi di Edipo su e giù per la lunga scala, coacervo di simboli eppure spazio nitido dove si dipana, in uno strano gioco di dimensioni opposte, «cosmico e microscopico» assieme, il filo della vicenda che già conosciamo, che non smettiamo di voler conoscere. Il segreto, da millenni, è questo.

Si replica fino al 3 luglio

Nel cast anche Dario Battaglia (Secondo messaggero), Giulia Acquasana, Caterina Alinari, Livia Allegri, Salvatore Amenta, Davide Arena, Maria Baio, Antonio Bandiera, Andrea Bassoli, Guido Bison, Victoria Blondeau, Cettina Bongiovanni, Flavia Bordone, Giuseppe Bordone, Vanda Bovo, Valentina Brancale, Alberto Carbone, Irasema Carpinteri, William Caruso, Michele Carvello, Giacomo Casali, Valentina Corrao, Gaia Cozzolino, Gabriele Crisafulli, Simone D’Acuti, Rosario D’Aniello, Sara De Lauretis, Carlo A. Denoyè, Matteo Di Girolamo, Irene Di Maria di Alleri, Corrado Drago, Carolina Eusebietti, Lorenzo Ficara, Manuel Fichera, Caterina Fontana, Enrico Gabriele, Fabio Gambina, Enrica Graziano, Giorgia Greco, Carlo Guglielminetti, Marco Guidotti, Lorenzo Iacuzio, Ferdinando Iebba, Lucia Imprescia, Vincenzo Invernale, Althea Maria Luana Iorio, Elvio La Pira, Domenico Lamparelli, Federica Giovanna Leuci, Rosamaria Liistro, Giusi Lisi, Edoardo Lombardo, Emilio Lumastro, Matteo Magatti, Roberto Marra, Carlotta Maria Messina, Moreno Pio Mondì, Matteo Nigi, Giuseppe Orto, Salvatore Pappalardo, Marta Parpinel, Alice Pennino, Edoardo Pipitone, Gianvincenzo Piro, Bruno Prestigio, Maria Putignano, Riccardo Rizzo, Francesco Ruggiero, Rosaria Salvatico, Jacopo Sarotti, Mariachiara Signorello, Flavia Testa, Sebastiano Tinè, Francesco Torre, Francesca Trianni, Gloria Trinci, Damiano Venuto, Maria Verdi, Federico Zini, Elisa Zucchetti (coro di Tebani).

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