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La pace, la guerra. Dentro e fuori. Addio allo scrittore israeliano Abraham Yehoshua

Fu una sorta di «coscienza critica» del suo Paese, esplorando e illuminando senza sosta la complessità delle relazioni e dell’identità

E ora Abraham Yehoshua, scrittore e drammaturgo di fama mondiale, morto ieri a Tel Aviv, a 85 anni, (era nato a Gerusalemme nel 1936), «è diventato lui stesso una nube che aleggia» come diceva del suo professore morto nella guerra del Kippur la giovane Dafi, una delle voci narranti di “L’amante” (1977), da tutti considerato il capolavoro del grandissimo scrittore israeliano. Un corpo a corpo, quello di Yehoshua, con la carnalità della lingua, con la lacuna del non detto che il potere immenso della parola letteraria riempie per colmare i vuoti delle relazioni familiari, amicali, pure entrando nella complessità delle parentele bibliche (soprattutto nel rapporto di padri e figli), e nel rapporto conflittuale tra popoli.
Irrequieta e indomita la sua presenza nel paese della scrittura, percorso giorno per giorno fino agli ultimi giorni, fino all’ultimo romanzo, “La figlia unica” (Einaudi, 2021, trad. di Anna Shomroni), ambientato in Italia, amatissima da Yehoshua che non tralasciava mai le occasioni di viaggiare nel nostro Paese. Una storia che ora suona come una testimonianza “sovversiva” – perché la scrittura del genio è sempre tale – , sulle questioni identitarie (le radici sono risorsa o dannazione?) e sulle convenzioni delle frontiere, sulla libertà e sugli stereotipi, anche quelli religiosi o atei, e sulla memoria, un messaggio forte attraverso la fresca voce della giovanissima Rachele Luzzatto, figlia unica di una ricca famiglia ebraica che vive nel Nord Italia. Perché «dovrei rileggere “Cuore”» chiede Rachele (un alter ego di Yehoshua bambino cui il padre, storico e intellettuale, leggeva il libro di De Amicis) alla professoressa che lo consiglia agli alunni. «Perché ci si dimentica, e invece bisogna ricordare», risponde l’insegnante.
E se all’esercizio della memoria, persino all’utopia della memoria giusta, ha dedicato tutta la vita, di ingiustizia dell’esistenza Yehoshua, che ha saputo raccontare il rapporto tra diaspora e Israele e il conflitto israelo-palestinese sempre sostenendo le ragioni della pace, ne ha raccontata tanta, spostandosi nelle storie con un movimento vorticoso e fluido, sempre pronto al passo successivo, deciso ad aprire ferite, a mostrare lacune da colmare, appunto, con la scrittura, densa della tristezza profonda e dell’umorismo insiti nell’anima ebraica.
Di famiglia sefardita, studi a Gerusalemme, anni parigini, quindi il ritorno in Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni e la permanenza ad Haifa dove ha insegnato Letteratura comparata e Letteratura ebraica presso l’università locale, partecipando attivamente alla vita politica del suo paese come esponente del Partito Laburista e distinguendosi tra gli scrittori israeliani, insieme ad Amos Oz e a David Grossman, Yehoshua era cittadino del mondo, con incarichi come professore esterno nelle Università di Harvard, di Chicago e di Princeton.
Nel 2003 gli venne conferito il Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per “La sposa liberata”, ambientato tra il 1998 e il 1999, quando le speranze di negoziati di pace tra Israele e Palestinesi avevano una luce: una di quelle storie amate dallo scrittore che, entrando nel cuore di quella foresta pulsante che è la famiglia, narra di un professore che per amore del figlio di cui è deciso a scoprire l’enigma dell’infelicità legata al recente divorzio, verrà aiutato dagli arabi, insieme temuti e amati.
Sin dal suo esordio, nel 1963, con il libro di racconti “La morte del vecchio” pubblicato in Italia dalla Giuntina, un giovane Yehoshua s’interrogava e interrogava il lettore sul senso dell’esistenza e sul senso della morte, un discorso sul quale, dalle atmosfere oniriche e surreali di quei primi racconti (seguiti da “Dinanzi alle foreste” del 1968) tornava di recente sempre più spesso.
«La morte è un dono che facciamo ai nostri nipoti, lasciamo loro spazio» ripeteva Yehoshua, che dopo la scomparsa nel 2016 della moglie Rivka, psicanalista, aveva in un certo senso iniziato il suo conto alla rovescia. Magari tradito dal suo corpo, ma sempre continuando a cercare, inseguendo le ombre, consapevole che il tempo invecchia in fretta.
E se “L’amante” nel 1977 gli diede fama internazionale (Yehoshua è stato tradotto in 22 lingue) per la maturità corale dell’affresco grandioso in cui attraverso voci alterne che si avvicendano e si rincorrono si dipinge l’incomunicabilità di mondi e culture schiacciati dalla complessità della condizione umana perennemente votata al conflitto, le opere successive confermano l’universalità della sua scrittura, da “Un divorzio tardivo” (1977) a “Cinque stagioni” (1987), da “Il signor Mani” (1990) con i destini di tanti “signor Mani” che si susseguono in una drammatica coazione a ripetere delle storie, a “Viaggio alla fine del millennio” (1997), da “Il responsabile delle risorse umane” (2004, da cui è stato tratto l’omonimo film per la regia di Eran Riklis nel 2010) a “Fuoco amico” (2007), da “La scena perduta (2011) a “La comparsa”(2015), a “Il tunnel” (2018), il bel romanzo sulla inevitabilità di rassegnarsi al declino mentale ma anche sulla necessità di convivervi attraverso l’accettazione, l’accoglienza e l’amore. E così la storia intima di Zvi Luria, un ingegnere che costruiva strade e tunnel, punto di riferimento per famiglia e amici, che si ritrova a percorrere il tunnel della demenza senile, diventa il racconto metonimico della drammatica vicenda collettiva e politica del popolo palestinese e di quello israeliano.
Saggista (“Elogio della normalità”, 1991, “Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare”, 1996, “Il labirinto dell’identità”, 2009) e drammaturgo (“Una notte di maggio”, 1975, “Possesso”, 1986, “Bambini della notte”, 1992, “Camminano forse due uomini insieme?”, 2013), Yehoshua è stato spesso premiato in Italia, dal Grinzane Cavour al Flaiano, dal Viareggio alla carriera al FriulAdria, dal Premio Hemingway al Taobuk Award, ed è stato più volte candidato al Nobel.

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