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Vittorio Gassman, 100 anni e rimane inarrivabile

Il primo settembre di quest’anno non è una data come un’altra: Vittorio Gassmann compiva cent'anni ed è l'occasione in cui tutta la cultura italiana può restituirgli il prestigio che troppo spesso gli è stato negato a vantaggio di un successo popolare guardato con sospetto dagli intellettuali. In realtà durante tutto l’anno le celebrazioni sono state numerose, culminate nella grande mostra all’auditorium di Roma e nell’intitolazione di un lungotevere nel suo nome, unico attore insieme ad Anna Magnani e Marcello Mastroianni a figurare due volte nella toponomastica della Capitale. Per la sera del suo compleanno il giornalista e regista Fabrizio Corallo ha organizzato una speciale proiezione del suo documentario dedicato a «Vittorio, re della commedia» alla Casa del Cinema di Roma. Cinque giorni dopo sarà la Mostra del Cinema a salutare il suo compleanno (e quello dell’amico e collega Ugo Tognazzi), a ricordarlo presentando la versione restaurata di uno dei capolavori della coppia, «La marcia su Roma» diretto da Dino Risi e ora ritornato visibile grazie ad Aurelio De Laurentiis e Cineteca nazionale.

Gli esordi

Ma chi era veramente Vittorio Gassmann, nato alla periferia di Genova (a Struppa) il 1 settembre 1922 e morto nel sonno nella sua casa romana il 2 giugno del 2000? Personalità contrastata, psiche probabilmente bipolare, formazione classica, perfezionista nel lavoro, irrequieto nella vita e negli amori, questo e tanto altro fu Vittorio, il Mattatore. Come lui nessuno sulla scena italiana, anche se si considerava con un po' di autoironia erede dei grandi capocomici, avendo sposato Nora, la figlia di Renzo Ricci. Formatosi all’Accademia Silvio d’Amico, nel 1943 debutta in teatro con «La nemica» di Niccodemi al fianco della grande Alda Borrelli per fare poi compagnia con Ernesto Calindri e Tino Carraro al Teatro Eliseo. Nel suo passato ci sono l’eredità dei genitori (il padre un ingegnere civile tedesco, la madre ebrea pisana),un anno dell’infanzia vissuto a Palmi nel quartiere Ferrobeton progettato dal padre, il diploma di maturità classica (con grande passione per il greco) al romano Liceo Tasso e una promettente carriera come giocatore di basket coi suoi 187 centimetri d’altezza, poi messa in soffitta a vantaggio della recitazione. Anche al cinema trova presto spazio nonostante le difficoltà del tempo di guerra e subito dopo la Liberazione comincia a segnalarsi soprattutto con ruoli da antagonista o da bel tenebroso. Ben presto in teatro, anche grazie alle scelte di Luchino Visconti che lo avvia sia al teatro classico che a quello moderno ("Un tram che si chiama desiderio") insieme a Paolo Stoppa e Rina Morelli, è una star mentre al cinema nonostante titoli importanti ("Riso amaro") dovrà aspettare la fine degli anni '50 per avere il primo nome in cartellone.

Il cinema

Succede quando Mario Monicelli scopre il suo talento comico con "I soliti ignoti» del 1958 e da allora si passerà di trionfo in trionfo anche per la capacità dell’attore di mimetizzarsi come un camaleonte nelle diverse facce dell’italiano: personalità istrionica, duttilità nella dizione di ogni dialetto, fisico prorompente, Vittorio Gassman (nel frattempo il cognome ha perso l'ultima lettera) entra di diritto nel club dei «colonnelli della commedia». Prenderà il soprannome celebre di Mattatore dopo il successo dell’omonimo programma televisivo del 1959. Da attore drammatico ha grandi conferme internazionali dopo «Guerra e pace» di King Vidor (1956), ma sono le commedie e il sodalizio con registi come Risi, Monicelli, Scola a costruire il suo mito; forse anche per questo non lascerà mai il teatro vestendo qui i panni classici che più amava, tra la tragedia greca e William Shakespeare. Fare la lista dei suoi capolavori è perfino imbarazzante da «La grande guerra» (Mario Monicelli, 1959) a "Il sorpasso"(Dino Risi, 1962, il suo ruolo più amato e ricco di sfumature) da «I mostri» (Risi, 1963) a «L'armata Brancaleone" (Monicelli, 1966), fino a «C'eravamo tanto amati» (Ettore Scola, 1974). Non mancano film drammatici come «Caro papà», «Il deserto dei tartari», «La terrazza» e soprattutto «Profumo di donna» che gli vale un applauso internazionale e la Palma d’oro a Cannes. E’ solo uno dei tanti riconoscimenti che teneva in casa come soprammobili occasionali, dai 9 David di Donatello ai Nastri d’argento, Grolle e Globi d’oro fino al Leone alla carriera della Mostra di Venezia che lo consacra nel 1996. Con lui è stato più avaro il cinema internazionale nonostante la stima di autori come Robert Altman. Di fatto forse lui per primo era intimidito da contesti che non controllava appieno e cercava sempre nel palcoscenico la strada di casa. Così è stato del resto il suo «autunno da patriarca» quando diradò i set (memorabile però la sua interpretazione ne «La famiglia» di Scola) per rifugiarsi nei recital di poesie, nella formazione dei giovani attori (la sua «Bottega» diretta a Firenze dal 1979 al 1991), nelle popolarissime letture dantesche.

Gli amori

E' ben nota la sua tempestosa vita sentimentale con tre mogli ufficiali (dopo Nora Ricci, l’americana Shelley Winters e Diletta d’Andrea), tre compagne amatissime (Juliette Mayniel, Anna Maria Ferrero, Annette Stroyberg), quattro figli da madri diverse: due di loro (Paola e Alessandro) lo hanno seguito nella passione per la recitazione. Non è possibile mettere confini al suo talento che spesso incuteva timore non solo nei compagni di lavoro, ma anche nei suoi registi; ma tutti possono confermare la sua generosità in scena, l’umorismo inseguito con tenacia per piacere e far piacere, la profondità della sua ricerca interiore, il timore della vecchiaia, la lealtà delle amicizie. Oggi appare un gigante inarrivabile e forse solo Pier Francesco Favino cerca di calcarne le orme. Ma è proprio la sua meravigliosa unicità che lo rende adesso più moderno di quando mieteva successi a passo di carica.

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