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Flamenco, per vivere: lo straordinario spettacolo di Israel Galván

Trasformare in gesto, in poesia del corpo, due classici: «El Amor Brujo» di Manuel de Falla e «Le Sacre du Printemps» di Stravinsky

Respirare il flamenco e lasciare che il suo potere taumaturgico plasmi il tempo, farsi parlare dai suoi pasos de desafío, passi di sfida che dicono l’indignazione, la nostalgia, il sentirsi stranieri, il dolore, ma pure l’allegria per esorcizzarli, perché anche quando il flamenco muove la sua anima tragica è allegria. Le vie del flamenco sono tante, e misteriose, ma tutte universali, sicché aver unito «El amor brujo» del compositore spagnolo Manuel de Falla (1876-1946) con «La consagración de la primavera», rilettura flamenca di «La sacre duprintemps» di Igor Stravinskij (1882-1971), è stata la scelta esaltante e sfidante del sivigliano Israel Galván, uno dei più grandi interpreti della filosofia del flamenco, in scena in prima nazionale italiana al Teatro della Pergola di Firenze (produzione di Israel Galván Company, in coproduzione con partner internazionali tra i quali il Théatre de la Ville di Parigi e il Teatro della Toscana).
Ma, dice il maestro Galván, «la mia sfida è quella di non sfidare, l’unica sfida è con me stesso, trasformare l’arte con i miei passi, con il mio linguaggio flamenco», ed è questo l’obiettivo del suo progetto nato nel 2019, con la rappresentazione delle due composizioni che al loro originario debutto, nel 1913 Stravinskij e nel 1915 de Falla, furono segnate dall’insuccesso. Entrambi i compositori, uniti da amicizia e stima reciproche, erano affascinati dalla natura popolare della juerga flamenca (la “festa di flamenco” adorata dalla generazione del ’27, e tra gli altri da García Lorca, Pedro Salinas, Rafael Alberti), e Stravinskij amava «el cante jondo», il «canto profondo» da lui considerato una costruzione classica. E quando Manuel de Falla vide la rappresentazione di «La Sacre duprintemps», colpito dall’innovazione della musica e della coreografia, dall’audacia del contenuto e dalla follia rituale della danza, ne trasse ispirazione per «El amor brujo», altrettanto “scandaloso” e suggestivo.
Suggestioni colte da Galván che ha cucitola sua doppia esecuzione con il filo che lega queste due opere, e cioè il rito. «Sono cresciuto con l’Amor Brujo – ci dice – è un classico spagnolo, una sorta di colonna sonora moderna del flamenco, con la gitana Candela che, abbandonata dal suo uomo, chiede a una strega di risvegliare l’amore. Quando i danzatori di flamenco volevano fare qualcosa di diverso ballavano l’Amor Brujo. Da questo volevo prendere le distanze, perché mi sembrava troppo familiare. Nel mio percorso come danzatore ho conosciuto la coreografia di Nijinsky e la musica di Stravinsky, che mi sono sembrate molto “flamenco” e molto connesse alla terra, ma ho scoperto immagini e ritmi nuovi. Poi ho riscoperto l’Amor Brujo, quando ho visto Kazuo Ohno nel suo omaggio alla famosa danzatrice Argentina e ho potuto quindi danzare l’Amor Brujo in modo diverso, come se tornassi a casa dopo un lungo viaggio. Do la mia versione dell’Amor Brujo, come do la mia versione della Sagra della Primavera, in questo caso mi sento come un ago che cuce il ritmo di Stravinskij».
Un “ago” dalla forte presenza scenica, l’epifania del corpo che attraverso la danza si fa imponente. «Non sono un bailaor – dice con pacatezza Galván dopo l’esecuzione (cerveza nel calice, fisicità minuta, tutta la potenza statuaria dei suoi movimenti l’ha donata prima, sul palcoscenico) – , io mi muovo e muovo il flamenco, per matar, per uccidere la tristezza e vivere, perché il flamenco è allegria. E per questo serve la sua forza».
Preceduto dalle parole del pianoforte, rivelazione di grazia e potenza dei due maestri, Daria van derBercken e Gerard Bouwhuis, insieme alla voce della mezzosoprano Barbara Koselj, Galván, rigoroso nella ricerca di suoni, forme e materiali, appare sulla scena buia dell’Amor brujo, con clangori rullanti provocati da “strumenti” sonori da lui stesso “inventati” (ferraglia, un secchio di metallo da percuotere, tarocchi in forma di tavolette di ceramica, lanciate a terra, nacchere come timpani).
Nelle vesti di Candela, è la danzatrice Eduarda de los Reyes (questo il nome della madre di Galván, ballerina di flamenco come José Galván, padre di Israel, con i quali ha camminato il flamenco sin da bambino), la parte femminile del danzatore che fa deflagrare il dramma della gitana disegnando con straordinaria gestualità, seduta su una sedia, le figure del flamenco.
Senza venir meno alla matematica del flamenco (Galván ha un suo idioma dei movimenti e li scrive minuziosamente), con il taconear, il movimento tellurico e il ticchettìo implacabile dei tacchi, la postura e le figure classiche della danza, Candela, tunica dal nero minimale e mantello rosso gettato sulla spalliera della sedia, fa vibrare il corpo, invasato dal demone del flamenco (quel duende folle che fu tanto amato da Lorca).
Bogeria ed energia, passione e carne, contemporaneità e tradizione anche nella Consagración de la Primavera. Al femminile subentra il maschile, Galván è uno e due insieme, e prima sulla sedia poi su suggestivi tablao, non la tradizionale pedana di legno ma dischi di legno e metallo: il danzatore incide con la frenesia dei movimenti la «sana follia» della danza.
«La danza aiuta a sudare, come una dialisi che filtra la paura, ed esattamente come un apparecchio per la dialisi, è una macchina, il corpo è una macchina con la carne, le ossa, e i suoi acidi. È necessario danzare da dentro, e si deve praticare la danza ogni giorno. La danza non è una questione atletica, è lo spirito che ti fa danzare».
Quando poi gli chiediamo quale può essere la medicina del flamenco in tempi tristi e di incomunicabilità, Galván, che dice di avere qualche problema a comunicare con le parole (benché si smentisca per la generosità con la quale risponde alle nostre curiosità), «il flamenco – risponde- è stato il mio angelo custode. Il flamenco ha qualcosa di speciale: ci si muove nell'aria e anche sulla terra; ha la sua musicalità e le sue percussioni. Questo ritmo e questa forma sono una medicina e di questi tempi credo che il flamenco possa invitare il pubblico a distogliersi dalle difficoltà della vita. Il flamenco è come un virus che ti entra nel corpo e si moltiplica, ma in questo caso è un virus buono, e non esiste un vaccino per espellerlo».

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