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«L’interpretazione dei sogni» di Stefano Massini: il drammaturgo è lui, l’inconscio

Un racconto che diventa investigazione, analisi, ri-costruzione della realtà. Quella apparentemente “stravolta” dal lavoro onirico, portatore d’inconfessabile verità

Ho sognato Stefano Massini. Stava su un palco, mi parlava, mi raccontava storie d’altri – un professore viennese di fine 800, un chirurgo, un bambino col nome d’un cane, una cameriera giovane e spaventata, una signora di mezz’età, una signorina che non ride mai, una donna che «muore ogni tre giorni» – e, che strano, tutte mi toccavano, tutte in qualche modo mi riguardavano. Ho sognato Stefano Massini, dentro un teatro bellissimo, nel cuore di Firenze, che stava da solo sul palcoscenico eppure ci tirava dentro una folla di personaggi, una quantità d’immagini, vivide come certi sogni di cui non sai come liberarti, come certi sogni che evaporano subito ma ti lasciano una sensazione incancellabile.

Con lui, in verità, c’erano i musicisti: una donna con l’abito rosso (Rachele Innocenti), il viso nell’ombra, un violino che entrava come uno stiletto dentro le parole che Massini diceva, e due uomini, con chitarra, trombone, tastiere (Damiano Terzoni e Saverio Zacchei). La musica (di Enrico Fink) non accompagnava le parole di Massini, piuttosto le contrappuntava, le stirava fino a quel punto oscuro che, sul palco, era la pupilla d’un gigantesco occhio aperto, dietro Massini e i musicisti (scene di Marco Rossi), quello stesso punto oscuro che era dentro di me e di tutti quelli che erano con me, una folla zitta e attenta, a riempire il teatro.

Due punti oscuri che si fronteggiavano: il centro dell’occhio, come il centro d’un vortice, e il centro di ciascuno di noi spettatori, l’inconscio, l’ “Altro nel seminterrato” che ci somiglia come una goccia d’acqua ma sta nel buio, zitto e fermo, mentre viviamo come se lui non ci fosse, e poi di notte esce, vive sul palco dei sogni mentre noi, in platea, assistiamo, e ci capovolge la realtà.

Stefano Massini, drammaturgo e performer (e adesso pure volto noto della tv, dove porta, con grande successo, la cosa più antitelevisiva che esista: la parola nuda che racconta), l’ha detto subito, non ha smesso di ripeterlo per tutto lo spettacolo – l’applauditissima prima nazionale de “L’interpretazione dei sogni”, liberamente ispirato e tratto dagli scritti di Sigmund Freud, al Teatro della Pergola di Firenze, una produzione Teatro della Toscana, Stabile di Bolzano, Teatro di Roma in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano/Teatro d’Europa – vivido come un sogno, enigmatico come un sogno, evidente e oscuro come un sogno: «C’è sempre qualcosa di terribile e splendido nell’attimo in cui decidi di guardarti dentro».

E così è stato come un sogno, un sogno collettivo e intimo, un sogno guidato e libero, un sogno d’associazioni e spiegazioni, d’ermeneutica e ermenautica interiore: è il metodo di Freud, la “via maestra” per la rivoluzione della psicanalisi, e Massini l’ha fatto diventare cammino narrativo e dramma. Sono dieci anni che Massini (che il 20 sarà a Catanzaro, per la festa del Politeama) studia – e probabilmente sogna – Freud, e già altri frutti di questa ricerca appassionata sono stati il suo romanzo “L’interpretatore dei sogni” (Mondadori, 2017) e lo spettacolo di Federico Tiezzi del 2018.

Questo è solo il passo successivo. In cui si riconosce per intero la rivoluzione freudiana: il testo, emozionante, è, in controluce, pure dottissimo, nutrito di tutto il corpus freudiano, dalla «Psicopatologia della vita quotidiana» al carteggio del 1932 con Einstein sulla guerra e la pulsione di morte. Dopotutto, l’inconscio è il serbatoio naturale di quello che ci fa umani: le storie («Il sogno è il tuo poema, siamo tutti Dante Alighieri, nei nostri sogni», dice Massini). Sedimentiamo in noi ogni cosa che ci tocca, ogni cosa che ci sfiora, e non facciamo che ritesserle e usarle, ogni notte, nell’indefesso lavoro onirico, che è di rifare la realtà mandandoci messaggi, cercando il punto di luce in cui far passare ciò che teniamo al buio, le verità che non vogliamo sostenere, i dolori che non riusciamo a attraversare, i rimproveri che ci hanno toccato perché giusti, perché ingiusti, i peccati che ci siamo affrettati a dimenticare (in scena, a velare e rivelare, le luci di Alfredo Piras).

Cosa potrebbe esserci di più eccitante, per un drammaturgo (e Massini è l’italiano il più rappresentato all’estero, oltre che l’unico ad aver ricevuto il Tony Award, l’Oscar del teatro negli Usa), se non comunicare con quel Drammaturgo Universale, stanarlo, rivelarlo e rivelarci il suo lavoro sottile, implacabile? Così Massini è proprio lui, in scena, l’Inconscio: quello che ci capovolge e ci svela. Ma di tanto in tanto diventa il dottor Sigmund Freud (d’altronde nel suo romanzo Freud era io narrante, prima cavia e paziente di se stesso: non esiste analisi che non sia anzitutto autoanalisi), che attivamente s’interroga sui suoi stessi sogni e le loro parenti strette, le fobie, pure quelle, come i sogni, prodotto di travestimenti e slittamenti di senso. Procedendo per accumulazione e iterazione, richiamando di continuo quell’opera di sostituzione e spostamento, di camuffamento e svelamento, quello spargimento d’indizi del sogno, Massini – in quasi due ore di spettacolo – ci costruisce il metodo e la “via maestra” per «quella cosa terribile e splendida: guardarsi dentro».

Leggere i sogni, leggerci dentro: l’occhio ci scruta mentre guardiamo Massini che ci guarda, che ci racconta, che investiga i sogni d’altri (talora proiettati alle sue spalle, sotto forma d’immagini dilatate e impastate, proprio come nei sogni, opera di Walter Sardonini). Fino all’atto finale, in cui sì, sarà come succede con l’Inconscio: non potremo guardarlo, non potremo reggerne la vista, letteralmente accecati dalla sua verità. Il momento più catartico eppure perturbante dello spettacolo.

Ho sognato Stefano Massini ma forse era il mio inconscio, il drammaturgo segreto che seguo rapita, lì nel mio teatro interiore, ogni notte, mentre mi spiega senza spiegarmi, mi racconta storie d’altri che sono sempre io, mette in scena ogni sorta di stranezza logicissima, di bizzarria perfettamente conseguente. E sono uscita dal teatro con gratitudine per quel lavoro oscuro e necessario, raccontare storie, trovare il bandolo della verità e porgerlo in un modo che sia accettabile, che “passi” tra le maschere e i camuffamenti e i divieti con cui viviamo la commedia sociale e il “disagio della civiltà”. Ho sognato Stefano Massini che era come la pupilla d’un gigantesco occhio, e la pupilla, si sa, è il massimo dell’acume visivo e in qualche modo il buco nero dell’occhio. Ho sognato Stefano Massini e l’occhio era anche una bocca che parlava (era quella, in video, di Luisa Cattaneo), lasciava uscire la menzogna rivestita di verità, e poi viceversa. Ho sognato Stefano Massini, o forse era solo il mio inconscio che ne ha preso il volto, la voce, le vesti e le maschere (di Elena Bianchini).

Nessun inconscio è stato maltrattato per realizzare questo spettacolo, ma tutti sono stati toccati: ci vorrebbe un’altra opera, ora, per spiegare i sogni di tutti gli spettatori de “L’interpretazione dei sogni” di Stefano Massini, un’opera destinata a continuarsi dentro ciascuno di noi. Come quella di Freud. Sogni d’oro a tutti.

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