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E se il San Michele custodito a Reggio fosse opera di Antonello da Messina?

E se il San Michele Arcangelo custodito nel Piccolo Museo San Paolo di Reggio Calabria fosse davvero un’opera di Antonello da Messina? Rilancia questa possibilità un appassionato, non nuovo a simili ipotesi – frutto di visioni improvvise, illuminazioni, intuizioni caparbiamente perseguite, ma su un terreno di certosina documentazione – , il messinese Carmelo Micalizzi, classe 1953, medico (specialista in Medicina interna e del Lavoro), presidente emerito della Comunità Ellenica dello Stretto, ma anche cultore di storia del territorio, studioso militante, decrittatore di documenti, catalogatore ed ermeneuta d’iconografie, già autore di diverse opere da puro “investigatore dell’arte”. Con un oggetto-soggetto privilegiato: l’immenso Antonello da Messina, suo elusivo concittadino con un posto unico nella Storia dell’Arte eppure con una spessa aura di mistero attorno.

Stavolta potrebbe fare ancora più rumore l’ipotesi rilanciata da questa singolare figura di medico-ricercatore-scioglitore d’enigmi dell’arte, che nel 2016 annunciò a Messina e al mondo degli studiosi d’arte d’aver trovato, nel magnifico «San Girolamo nello studio», celeberrima tavola conservata alla National Gallery di Londra e attribuita al Maestro della pittura siciliano, traccia sicura di ciò che nel dipinto fino ad allora si riteneva mancasse: la firma. E stavolta la proposta è anche più ardita.

Comincia tutto, come sempre per Micalizzi, con uno sguardo più appuntito, l’emergere d’una visione, una domanda in più. Comincia nel bel Museo San Paolo che a Reggio si trova nel Palazzo della Cultura, e ospita una preziosa collezione di icone, ma anche tele, tavole, argenti, sculture. Uno dei pezzi più noti e più belli è, appunto, il «San Michele Arcangelo» raffigurato – e poi sfigurato – su una tavola quattrocentesca, con la lancia e il drago ai piedi. Qua e là si trovano tracce della proposta di attribuirlo ad Antonello (in alcuni siti questo in effetti viene riportato), e l’ipotesi era stata avanzata soprattutto dal fondatore stesso del Museo, il benemerito monsignor Francesco Gangemi, reggino, dotto amante dell’arte (il nucleo di opere del museo altro non è che la sua vasta e preziosa collezione privata), nel volumetto “Antonello e la chiesa di San Michele dei Gerbini in Reggio Calabria: spunti e appunti”, pubblicato nel 1993.

Il dipinto – una tempera su tavola di pioppo alta due metri – venne acquisito da mons. Gangemi negli anni Sessanta del secolo scorso, e fu restaurato nel 1974 alla Soprintendenza di Cosenza, da Raffaele Gallo: fu allora che il volto, sfregiato con un colpo d’ascia durante un’incursione dei turchi (che, come sappiamo, mutilavano così le opere d’arte) nel 1597 e ridipinto subito dopo, venne riportato all’antico, e oggi, proprio in quel volto semicancellato – e dopo un ulteriore intervento realizzato da Anna Arcudi all’Istituto superiore di conservazione e restauro di Roma – possiamo leggere la storia del dipinto (che cosa preziosa la filologia, in cui anche i vuoti sono pieni di senso, e talora cancellare qualcosa vuol dire ripristinarne una cancellatura…).

La tesi di mons. Gangemi era che si trattasse dell’opera che era stata oggetto d’un contratto stipulato il 4 marzo 1457 (l’atto notarile originale fu distrutto ma venne copiato da Gioacchino Di Marzo) tra il governatore della Confraternita di San Michele Arcangelo dei Gerbini di Reggio, Antonio Malafa, e il ventisettenne Antonello, che s’impegnava a dipingere un gonfalone raffigurante, appunto, un San Michele con la lancia che uccide il drago. Ma questa tesi non è accettata dagli storici dell’arte, che anzitutto escludono che l’opera sia un gonfalone, e la attribuiscono a un «ignoto pittore catalano-valenzano operante in area napoletana», parlando genericamente di tardo gotico.

Il dottor Micalizzi, però, ritiene di aver trovato anche stavolta l’indizio giusto, che potrebbe far rivalutare l’intera questione: una scritta, divisa in due, sulla bordura del mantello del Santo: «di Anton...ellus», che gli risultò addirittura d’abbagliante evidenza durante una visita al museo reggino, nel dicembre scorso, fatta proprio allo scopo di verificare la fondatezza della tesi di Gangemi. Una visita con lo spirito d’investigatore, sempre alla ricerca di ciò che è invisibile… ma sotto gli occhi di tutti, come era accaduto per il suo precedente contributo sul San Girolamo.

«Critici e storici dell’arte – dice Micalizzi con fare pacato – hanno sempre, categoricamente negato che la tavola possa essere di Antonello. Hanno escluso anche che possa essere a lui attribuibile, non inserendola pertanto nel catalogo del pittore. Alcuni siti internet (del territorio) riprendono invece suggestivamente l’ipotesi di mons. Gangemi, che peraltro l’aveva formulata senza nemmeno avere visto le lettere. Il dipinto dopo l’ultimo restauro eseguito da Anna Arcudi, nel 2006, svela chiaramente la “scrittura”, una commistione, secondo lo stile quattrocentesco, di lettere capitoline e gotico corsivo: quello stesso – per esempio – che viene usato nella scrittura “I.N.R.I.”. Le scritture sono allineate a destra e a sinistra sullo stesso “parallelo” per una un’unica lettura, lì dove è comprensibile cercare una firma».

Ovviamente, questa è una osservazione fatta soltanto guardando la tavola, senza altri strumenti, più profondi, d’indagine. «Gli specialisti – aggiunge, serafico, il dottor Micalizzi – possono autorevolmente, secondo le proprie competenze, pronunciarsi sulla scrittura».
Era con lui, nel momento in cui scorse la traccia di quelle lettere, guardando il dipinto, un altro studioso, Pietro Giacopello, della fondazione Antonello da Messina, che ha curato le schede e la bibliografia ragionata dell’ultimo, recentissimo saggio del dottor Micalizzi, “Il San Sebastiano di Antonello. Il tema di Ercole, le imprese e l'elogio di Ferrara” (Di Nicolò, 2022), il quinto dedicato al Maestro.

Quindi per lei il San Michele sarebbe un gonfalone?
«L’immagine di San Michele mostra una discrepanza prospettica (nella visione dal basso verso l’alto: piedi-bacino-torace-capo) come è naturale che possa esserci in un evento processionale per l’elevata esposizione del gonfalone. Elemento di notevole rilievo valutata l’epoca di realizzazione. Il pesante gonfalone (circa 300 kg assieme alla scomparsa cornice e a 60 grossi chiodi di ferro) nella circostanza della processione era forse montato su di un fercolo portato da almeno sei, o anche otto persone».

Uno degli argomenti è che non somiglia alle altre opere di Antonello…
«Bisogna leggerlo alla luce della maniera fiamminga, catalana, valenzana che caratterizza il giovane Antonello, che all’epoca ha appena terminato il discepolato a Napoli presso il primo pittore di corte, Colantonio: lo stesso stile che caratterizza, ad esempio, la “Vergine leggente” del Museo Poldi Pezzoli di Milano, o la “Virgo advocata” di Como, o la “Crocifissione” di Sibiu, custodita a Bucarest».

Come è finita col suo precedente contributo sul San Girolamo? La comunità scientifica l'ha recepito, o almeno dibattuto?
«Positivo è stato il parere della storica dell’arte Lucia Arbace, esperta negli studi antonelliani e che ha pubblicato una monografia sul pittore. Gli studiosi locali (Museo e Sovrintendenza) hanno sempre trascurato l’argomento quantunque sia stata data inizialmente una buona pubblicità. Alcuni insistono che le scritture (1474, MISSI [NA]) siano solo ghirigori, sbavature incidentali del pennello. Non ho avuto l’accortezza di inviare una copia della pubblicazione alla National Gallery».

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