Collegare il nome di Pierre-Auguste Renoir (1841–1919) alla breve stagione dell’Impressionismo è un automatismo culturale che non solo fa torto ad almeno quarant’anni di prolifica attività del pittore francese, ma implica anche un sottaciuto eppure evidente giudizio di merito: come dire che il Renoir post impressionista non è poi un artista così interessante. Questa fake d’arte viene brillantemente smentita dalla mostra «Renoir. L’alba di un nuovo classicismo», ospitata nel Palazzo Roverella di Rovigo fino al 25 giugno. Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, sostenuta da Intesa Sanpaolo e prodotta da Silvana Editoriale, la mostra consente al curatore Paolo Bolpagni di far crollare l’assunto semplicistico Renoir-Impressionismo e va molto avanti, inserendosi tra gli studi che vogliono dimostrare come il secondo Renoir sia un precursore piuttosto che un passatista. Probabilmente i colleghi impressionisti (Pissarro, Degas, Monet eccetera) non furono estranei a coniare la convinzione che Renoir, stanco di sperimentare le vibrazioni di luce e altri stilemi del gruppo – tanto da aver partecipato solo alle prime tre delle loro sette esposizioni – avesse preferito tornare a una pittura che strizzava l’occhio ai grandi classici di un tempo, rinunciando alle idee più originali. Insomma, sarebbe passato dai tentativi di innovazione alle più banali “riproduzioni” di vecchi modi di dipingere. Ma non è così semplice. Ammesso che in effetti Renoir si fosse allontanato da certi radicalismi comportamentali dei suoi compagni di strada, anche perché non gli dispiaceva esporre dove le sue opere si vendevano con maggiore facilità, rimane il fatto che la sua popolarità non conobbe declino ed è arrivata intatta fino a oggi, comprendendo tutte le opere, soprattutto le famosissime “bagnanti”, dipinte dopo il distacco dall’Impressionismo. Così, nel suo percorso espositivo che comprende ben 47 opere di Renoir a confronto con altre, coeve e più antiche, Bolpagni riesce a declinare la tesi che l’artista francese sia stato un acuto precursore di quel nuovo classicismo che Giorgio De Chirico chiamò poi «ritorno al mestiere», segnalando proprio il “tardo Renoir” come riferimento. A fare da spartiacque tra primo e secondo modo di dipingere, la mostra segnala il viaggio in Italia che Renoir fece fra il 1881 e il 1882. Non un viaggio qualunque, visto che lo stesso pittore scriveva: «Mi ha preso la smania di vedere Raffaello. Sto dunque divorando la mia Italia». Il suo itinerario comprese Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Pompei, la Calabria (dove, secondo alcuni studiosi, avrebbe rifatto un affresco nella Chiesa Madre di Capistrano, nelle Serre Vibonesi) e Palermo. Dopo Carpaccio e Tiepolo a Venezia e considerato Michelangelo troppo “muscolare”, fu proprio il Raffaello degli affreschi di Villa Farnesina a dare uno slancio diverso alla pittura di Renoir, che diventa incline a una classicità che non dimentica le capacità luministiche degli impressionisti, anzi le esalta, e risente sempre della lezione dell’amato Ingres. A dimostrazione di questa tesi, la mostra si serve di uno dei capolavori esposti, la «Baigneuse blonde», in cui è ritratta davanti al mare di Napoli la modella ventiduenne AlineCharigot, che sarebbe diventata la moglie del pittore. E, nel continuo raffronto con opere di contemporanei e di artisti antichi, spicca la piccola tavola di Rubens «Le ninfe incoronano la dea dell’Abbondanza» (1622), che sembra brillare di luce propria nel percorso espositivo, pur senza far torto alla bagnanti di Renoir, basate su una voluta irregolarità che le rende estremamente moderne. «La natura ha orrore (…) della regolarità – aveva scritto il pittore francese – . Gli occhi del più bel volto saranno sempre lievemente diversi, non esiste naso che sia esattamente centrato sulla bocca (…) sembra proprio che il fascino di ogni bellezza consista in questa diversità». La mostra dà spazio anche alle attività meno note di Renoir come le incisioni, un vero terreno di sperimentazioni diverse tra loro (con un ritratto di Wagner, incontrato a Palermo, che non piacque per nulla al compositore), e la scultura, come «Venus Victrix», realizzata con l’aiuto dell’assistente catalano Richard Guino. L’artista, colpito da artrite deformante, non poteva scolpire personalmente e comunque non rinunciò mai a dipingere: quando la malattia lo costrinse sulla sedia a rotelle, si faceva legare i pennelli alle mani deformate continuando fino all’ultimo con i suoi amati temi, compreso un ritorno a quello dei fiori. Alla strenua ricerca di “faccia a faccia”, la mostra presenta anche opere di Carpaccio, Tiziano, Tiepolo, Ingres, Boldini, De Nittis, De Chirico, Carrà, Medardo Rosso e tanti altri. Alle volte, come ammette il curatore, sono soltanto «cortocircuiti e suggestioni», ma si può riconoscere che è proprio da suggestioni che Renoir è partito per il suo “ripensamento artistico”, quando lo sguardo indietro all’arte più immortale lo ha condotto a guardare in avanti, fino a essere un precursore del nuovo classicismo.