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Quell’incontro fra umano e disumano: applausi a Siracusa per «Prometeo Incatenato»

La tragedia di Eschilo, tradotta da Roberto Vecchioni, messa in scena da Leo Muscato: uno spettacolo tutto centrato sulla polifonia e la sintesi di voce, gesto, suono

«AI, libera Prometeo!». Così, interpellando l’Intelligenza Artificiale – estrema spiaggia d’una tecnologia che s’avvia a diventare “a immagine e somiglianza” di chi l’ha creata – un mortale potrebbe, oggi, cercare di risolvere la tragedia di Prometeo Incatenato. Proprio quell’AI che tanto ci eccita e ci spaventa, in questi giorni e in questi tempi, e che potremmo, in fondo, considerare l’ultimo dono del Titano preveggente («non c’è arte che non venga ai mortali da Prometeo»), che, incatenato per ordine d’uno Zeus malevolo e che odia gli uomini, urla il suo dolore umanissimo nella messinscena che ha aperto, trionfalmente, la 58. stagione di spettacoli classici allestita dall’Inda al teatro greco di Siracusa.

Tragedia superumana o oltreumana, che si svolge – come rimarca il regista Leo Muscato, alla sua prima volta a Siracusa – in un finis terrae potentemente evocativo, sito industriale, fabbrica abbandonata o centrale nucleare dismessa: una di quelle “rovine del futuro” che popolano tanto immaginario contemporaneo. E questo è un ben fertile paradosso: una storia di millenni fa ambientata in quello che potrebbe essere un futuro altrettanto remoto, in un tempo altrettanto fermo, come quello del mito.

Così è straniante e affascinante quest’archeologia del futuro dentro un teatro antico, dove la pietra della cavea e il metallo delle ciminiere (le scenografie sono di Federica Parolini) s’incontrano. La pietra antica smagliante, rinnovata – come ogni anno – dalla presenza vivificante degli spettatori, migliaia e migliaia (moltissimi giovani); la ciminiera moderna vetusta, ossidata, dismessa (e non si può non sentire l’eco dei nostri timori di oggi, per la guerra che infuria tra gl’impianti nucleari di un’altra parte del mondo – che poi è davvero la Scizia citata nel testo – , la violenza cieca che contraddice la modernità, restituendo ogni volta la stirpe ai suoi istinti più bui).

Lì si compie l’ultimo atto della condanna di Prometeo, eroe per antonomasia, figura di grande fortuna molto oltre la classicità, proprio per quel suo umanissimo scacco, la contraddizione del suo essere (un altro dei fertili paradossi ben comunicati dalla messinscena, la cui drammaturgia è di Francesco Morosi): colui-che-prevede il destino (come recita il suo nome) e pure colui che lo vuole, lo sceglie, lo costruisce. Un po’ il rovello tutto umano di noi che crediamo al caso e pure alla volontà, alle potenze superumane e all’assoluto arbitrio umano, tutto nello stesso istante.

Così, in questa tragedia sopravvissuta, scritta attorno al 460 a. C. da Eschilo, in cui nessuno dei protagonisti è umano – sono dèi o titani, e l’unica umana, Io (una straordinaria Deniz Ozdogan, potenza femminile pura, giocata col corpo e la voce in un continuo conflitto d’umanità-inumanità, tormento-resistenza, sfinimento-ribellione), trasformata in vacca da Zeus e tormentata da un tafano che non le dà tregua, è un ibrido mostruoso eppure affascinante – l’umano regna, negli accenti di dolore del protagonista (bravissimo Alessandro Albertin, sempre in scena, inchiodato alla sua ciminiera per quasi tutti i 1090 versi), ma anche nell’empatia di Efesto (efficace Michele Cipriani), il dio fabbro che, letteralmente tra le scintille, deve incatenare il condannato, sotto gli occhi di Kratos, il Potere (Davide Paganini), e Bia, la Forza (Silvia Valenti), perfetti barbari postapocalittici (o preumani, fa lo stesso: chissà quand’è l’apocalisse, se prima di noi o a causa nostra...), il cui ingresso a bordo d’un carrello ferroviario fa pensare assieme a Mad Max e ai campi di sterminio.

L’umanità «dalla breve luce», «dai giorni sottili», nella traduzione di Roberto Vecchioni (che ha preso i suoi applausi in scena, alla prima), molto celebrata ma che forse talora mescola un po’ troppo i registri (come nel dialogo, ai limiti del comico, con Oceano-Alfonso Veneroso, o in taluni accenti del pur bell’Ermes, post punk, soavemente screanzato, di Pasquale di Filippo, definito «galoppino degli dèi», tutto «lei non sa chi sono io»).

L’umanità di cui Prometeo parla con accenti amorosi, rivendicandone il debito di conoscenza: lui ci ha insegnato i segni e la loro interpretazione, la tecnica e la mantica (e mentre lo diceva, alla prima – prodigio assoluto del luogo, la cui natura partecipa a ogni messinscena in modi non prevedibili – il volo d’un uccello tagliava lo spazio sopra il teatro: AI, dillo a Prometeo).
L’umanità che ravvisiamo nel tono accorato delle Oceanine, coro marino dalle movenze e sonorità acquatiche, donne-pesce che sgorgano esse pure dai condotti, e dilagano in scena come onde. Ed ecco l’altro incontro: le scaglie luccicanti, le code, le chiome di antiche potenze superumane e gli occhiali da saldatore, gli stivali, la pelle luccicante o le tessere dorate degli abiti degli dèi alleati di Zeus. Tante cose opposte s’incontrano, si toccano in scena, replicando senza fine questo sfiorarsi continuo di umano e sovrumano, di umano e disumano: nella scena, in quella verticalità della ciminiera-rupe cui è avvinto Prometeo, pur rivolto col cuore, con la sua pietà amorosa, alla terra degli uomini; nell’irruzione, magistrale, di Io.

Nella musica, che permea tutta la messinscena, come tono di fondo, vibrazione tellurica, quando non è coro e voce verticale: un equilibrio sottile, tra alto e basso, acuto e profondo, continuamente minacciato dalla dissonanza, tutto giocato in un intervallo brevissimo, una seconda minore che esprime il continuo dissidio-incontro che regge tutto il dramma (egregio il lavoro – che è drammaturgia, non colonna sonora – di Ernani Maletta, così come la direzione del coro di Francesca Della Monica e le coreografie di Nicole Kehrberger). E persino la presenza di Zeus possiamo sentire, trasformata in gemito profondo delle tubature, sfrigolìo elettrico, tempesta magnetica (le luci sono di Alessandro Verazzi) che contribuisce a rendere inquietante quel luogo tutto passato, tutto futuro.

Il coro (corifee Silvia Benvenuto, Letizia Bravi, Gloria Carovana, Maria Laila Fernandez, Valeria Girelli, Elena Polic Greco, responsabile del coro, Giada Lorusso, María Pilar Pérez Aspa e Silvia Pietta; coreute Giulia Acquasana, Marina La Placa e Alba Sofia Vella) è forse il miglior esempio d’uno spettacolo – onore al regista e al suo metodo di lavoro – interamente costruito sulla polifonia e la sintesi corale di gesto, voce, suono, spazio, movimento. Ovvero, l’umano.
Si replica fino al 4 giugno (in alternanza con «Medea»).

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