Eppure suonavano i violini ad Auschwitz. E le note piangevano sulle corde spinate. E la musica sottile strideva sopra quelle teste rasate a sangue, dentro quei pigiami sulle cui righe si cancellava sistematicamente ogni storia scritta prima. Di identità annientate, di vite sottratte all'umanità, concentrate in campi seminati a nulla, sterminati di tutto. Con le schiene spezzate da un lavoro senza libertà, con le schiene dritte di dignità. C'era l'orchestra ad Auschwitz. Là dove anche Dio è morto, c'era un coro silenzioso che cantava a bocca chiusa. Là dove il mondo finiva, l'altro mondo resisteva. Lo volevano "loro". Che sfruttavano, approfittavano anche dell'arte per rifarsi le orecchie, per coprirsi gli occhi. Un'orchestra maschile e una femminile. Le ragazze e gli uomini di Auschwitz disarmati di strumenti per sollevare gli umori, per mettere in scena un soggetto senza predicato, perchè faceva bene a chi era il male. C'erano loro in mostra ai cancelli, tra i malati, durante le cerimonie: servivano, in tutti i modi in cui è possibile servire. Nel nome di privilegi che puzzavano d'insulto. C'era una volta il violino della Shoah. E c'è ancora, è sopravvissuto. Un Collin Mezin che Edgardo Levy comprò per sua figlia Eva Maria e che partì dal Binario 21, unito al destino della sua legittima proprietaria. Un violino rotto e sanato. Morto e risorto. Dal suono ondivago com'erano le anime, lo stesso suono che risuona nella colonna vertebrale di Schindler's List, quello doloroso della memoria, quello delle melodie in minore, delle pause che non erano esitazione, piuttosto spazio per il respiro. Ci fu un paradosso tra i paradossi di Auschwitz. La bellezza (la bravura, il valore, il talento) riconoscibile, riconosciuta addirittura da quelli che volevano cancellarla. Ci furono uomini e donne con la destra abbassata, col braccio spiegato sul bastone, con l'archetto in mano. Col mento chino sulla cassa e la testa alta. Ci furono, per sempre.