Non si fermano le proteste in Myanmar, nemmeno il giorno dopo una delle giornate più sanguinose dal golpe del primo febbraio: i morti ormai si contano a decine e domenica, nella zona industriale di Yangon, la capitale economica, sono state date alle fiamme aziende proprietà di cinesi. Sono già cinque i morti nelle prime ore di scontri, ma nel week-end è stato un bagno di sangue, almeno 59 le vittime. Intanto è stata rinviata, a causa dell’assenza di Internet, l’udienza in tribunale per Aung San Suu Kyi. Lo ha riferito il suo avvocato, Khin Maung Zaw, sostenendo che la nuova data del processo è il 24 marzo. Premio Nobel per la Pace nel 1991, e di fatto capo del governo civile che è stato defenestrato con il golpe del primo febbraio, San Suu Kyi deve rispondere di almeno quattro capi d’imputazione: importazione illegale di walkie-talkie, mancato rispetto delle restrizioni legate al coronavirus, violazione di una legge sulle telecomunicazioni e incitazioni ai disordini. Secondo il quotidiano online Myanmar Now oltre ad almeno 59 morti, tra cui un agente, nella giornata di domenica ci sono stati 129 feriti nella sola Yangon: è stato il giorno più sanguinoso finora dalla presa del potere da parte dell’esercito. Ma il timore di medici e le squadre di soccorso è il numero reale sia molto più alto. Amnesty International la scorsa settimana ha accusato il regime di usare «armi da battaglia» contro chi decide di scendere in piazza. Durante il weekend, sempre a Yangon, 32 fabbriche tessili di proprietà di uomini d’affari cinesi sono andate a fuoco, secondo fonti di Pechino. La reazione di Pechino non si è fatta attendere: il governo si è detto «molto preoccupato» per l’accaduto e l’ambasciata ha chiesto alle autorità di arrestare gli autori e «garantire la sicurezza delle aziende e del personale». Si stima che all’interno di queste strutture lavorino oltre 400mila dipendenti. Secondo il giornale cinese Global Times, che riporta fonti dell’ambasciata, ci sono stati anche due feriti, due operai, e i danni alle fabbriche costeranno circa 37 milioni di dollari (poco meno di 31 milioni di euro). Secondo un editoriale del quotidiano cinese, «gli attacchi erano evidentemente ben organizzati e pianificati» «La priorità assoluta è impedire il verificarsi di nuovi sanguinosi conflitti e ottenere un raffreddamento della situazione il prima possibile», ha sottolineato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian. La Cina, ha aggiunto, «sta seguendo molto da vicino l’evolversi della situazione». Il movimento di «disobbedienza civile», che organizza le manifestazioni contro la giunta militare a livello nazionale, incolpa i militari per gli incidenti. «La giunta terrorista è pienamente responsabile degli incendi all’interno delle fabbriche cinesi», ha attaccato sul suo profilo Twitter. Pechino -che aveva buone relazioni con il governo di Aung San Suu Kyi- ha esercitato il suo veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu per non condannare il colpo di Stato in Birmania. Un fatto che è stato visto da molti dei manifestanti come un esplicito sostegno del gigante asiatico ai militari. Allo stesso tempo, però, la Cina si è unità alle democrazie occidentali e alla Russia nell’appoggiare le dichiarazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che deplorano la violenza e chiedono il rilascio di Aung San Suu Kyi e degli altri arrestati dopo il golpe. Molti però tra i manifestanti sono convinti che proprio la Cina sostenga il golpe ed in queste settimane hanno inscenato manifestazioni di protesta davanti l’ambasciata cinese.