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Una playlist per te. Notre Dame de Paris, opera popolare senza confini: l'antico è sempre nuovo

"Migranti: 95 alla deriva da ieri, riportati in Libia". "Migranti: naufragio al largo della Libia: 50 morti". "Migranti: oltre 700 riportati in Libia negli ultimi giorni «solo per finire in detenzione arbitraria»". Solo negli ultimi giorni. Il conto salato, il canto disperato, "u cuntu" straziato.

Parigi nell'anno del Signore 1482, ma potrebbe essere una delle tante Lampedusa di oggi.
I sans papiers che si rifugiavano nelle chiese antiche, i migranti che cercano nuove case. Il chiasso della corte dei miracoli, la festa dei folli affollati alle porte dei porti. Chi traversava i muri, chi si arrampica nel mare.

Confesso: ho rivisto Notre Dame de Paris, l'ho rivisto ancora una volta per la prima volta. Nelle immagini di ieri, di oggi e di domani. Ho rivisto un musical che musical non è. C'è la scrittura di Victor Hugo che si fa architettura nella ricostruzione di Riccardo Cocciante, un analfabeta musicale che non legge il pentagramma (eppure Ennio Morricone si è sempre detto ammirato: “Riccardo è come un gatto che precipita dal quinto piano e cade sempre sulle zampe davanti”), sa solo trascrivere il dettato melodico della vita e ricomporla leggera come un’opera popolare. Monumentale, drammaturgicamente drammatica. Contemporanea e visionaria, persino futurista. Ungente, urgente. Coi suoi significati e i propri significanti mutevoli, argillosi.

Ho rivisto l’antico e sempre nuovo, il giorno che verrà e quello che è già qua. Un sipario aperto sulle contraddizioni di poeti che cantano, re senza corona, arcidiaconi che perdono la fede, eserciti di gargoyle agli ordini di capitani messi lì per proteggere la facciata. Ho rivisto il mostro campanaro sedotto dal bello e irraggiungibile, il brutto che muore per ricongiungersi a quel desiderio di bellezza inseguito per tutta una vita. Immagini, vedute, rivedute.

Ho risentito la letteratura di Cocciante. Il tempo delle cattedrali sospeso tra abbellimenti di arpa e fiati, dal bassofondo oltre la guglia bruciata, fino a un ritornello che “sale su verso le stelle” ripido, senza appoggio, ad aprire vetrate in mezzo a barriere. Il traballante diventare saldo su un massetto solenne di organo, funamboli vandali e pagani cercare radici sulla terra e trovarci pietra dura come la realtà. E poi crollare, implodere nel tempo dei clandestini percossi come tamburi tribali. “Uomini e donne soltanto vivi. Chi non ha, i milioni, quel niente che conta zero, gli sconfitti, battuti e vinti, che se perdiamo, perdiamo niente. Figlie e madri e padri e figli, gli esclusi e gli abusivi”. Gli stranieri del mondo che chiedono asilo, gli zingari, gli esotici. Legati da un cordone sempre meno umanitario, sempre più ombelicale.

Che sia il 1482 con le sue storie d'amore e di passione, il 1831 del giovane Victor Hugo e del suo romanzo storico, il 1998 della prima messinscena (due atti, su libretto di Luc Plamondon per la versione francese, di Pasquale Panella per la traduzione italiana). O l’eterno presente che “porta con sé il suo deposito alluvionale, in cui ogni razza innalza, depone il proprio strato sul monumento, ogni individuo vi aggiunge una pietra”. C'è un graffito inciso sulla Cattedrale: un fatale “ananke” che gli artisti senza nome faranno rivivere. Da oggi all'avvenire. Consapevoli che “il mondo non è qua ma è qua che cambierà. E si mescolerà. E ricomincerà”.

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