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Una playlist per te. Dal post rock alla narrazione rap, passione e morte: dal vangelo secondo Gomorra

"Ora tocca a te Genna'. Tu hai fatto cose indicibili e mai avrei pensato di poter essere in grado di raccontare con verità tutte le cose orribili che hai fatto. Anche se siamo distanti anni luce in questi 8 anni mi hai fatto capire tante cose che conserverò gelosamente dentro di me. ora vi toccherà aspettare un po' per #Gomorra5 ma sappiate che, come sempre, ne varrà la pena!!! THE END"

Fine. L'ultimo ciak dell'ultima stagione di Gomorra, la quinta, è stato battuto. Come anticipa Sky, ritroveremo Gennaro Savastano dentro al bunker nel quale lo abbiamo lasciato. Con la polizia alle costole e la normalità di una vita con Azzurra e Pietro alle spalle. E guerre, quella tra i Levante e Patrizia di ieri, quella coi nuovi nemici alle porte. "O Maestrale" al fianco e Ciro Di Marzio in vista.

Ma c'è un personaggio protagonista dell'intera serie, latente, latitante, pregnante: è la musica.

Passione e morte: dal Vangelo secondo Gomorra. Immagina l'incontro tra il “post-rock” (non tanto quello di natura elettronica ma proprio quello suonato con gli strumenti classici del rock) e la capacità che ha di rendere espressivi i suoni senza seguire le classiche strutture della forma canzone. Il rap napoletano che tra crasi, sintesi, parole tronche e note dilatate racconta gli aforismi della vita da quelle parti. E il neomelodico, talmente incatenato a quel territorio da riuscire a trasmettere la natura dei personaggi, la loro quotidianità, di cosa è fatta la normalità per loro.

Pensa alle opposizioni tra le linee armoniche in purezza che emergono dalle strumentali dei Mokadelic (artefici della colonna sonora originale) e a quel substrato di rumori acidi e ferrosi che corrodono i profili e imprimono il carattere. Praticamente una ghost track industriale, un tunnel sonoro senza fine. Di passi, un respiro di sigaretta, chi tira le lacrime su per il naso, l'accelerazione dei motori, l'elettricità nell'aria delle Vele di Scampia. La conta dei soldi e l'estorsione di dignità, sirene di ambulanze più che di giustizia, slot machine da guerra. Il check sound dal balcone di spaccio e le voci sputate in faccia, infettive. Il bip della cassa e il prezzo da pagare, il bip medicale quando diventa battito braccato. Cigolii di quello che scricchiola sotto i piedi. Le pale di un elicottero per fuggire e i conati di vomito per liberarsi. Il carillon, il piano giocattolo e i sonagli dei bambini che non sono mai piccoli. Venti furiosi, atmosfere western, eco e vibrazioni di batteria. Ma pure la ripetizione di note come promemoria ossessivi di sentimenti compulsivi, che si stagliano solitarie sullo spartito, senza legature come boss senza legami. Tutto intonato, tutto a tempo. Tutti riconciliati nella narrazione.

Ricorda i silenzi di morti in processione, la luce muta delle piazze imbellettate del centro, il bordello delle piazze di spaccio sfasciate come i prospetti di Secondigliano e le prospettive di chi ci abita. Lo spiraglio che quando apre squarcia. Il contrappunto e quella cosa di accentare i tempi forti delle parole e scivolare sulle debolezze. La diffusione del suono nebulizzata, forse anestetizzata per sentire meno dolore. Tanto ci si può allontanare, tanto succede nell'altra stanza. Almeno finché quel tema ricorrente, ondivago e cullante non ti riporta in scena, l'ultima scena: una sequenza elementare e il riverbero di un lungo accordo maggiore come la doppia linea in fondo al pentagramma.

Chiudi gli occhi e sei lì, in quel tempo. Nella Gomorra che si sente e nella musica si vede, nella Gomorra che aggrega mentre la musica integra. In una Gomorra che s'incanta ma che la musica dissacra. Nella serie tv (opera di Stefano Sollima, Claudio Cupellini e Francesca Comencini su libretto di Roberto Saviano) scritta con la messa a fuoco selettiva per sbattere nei primi piani ed esitare nelle lontananze, intersecando i livelli del suonato e del vissuto. Nel capolavoro dei Mokadelic che ne ha reso vertebrale (filtrando, svelando, spiegando) la colonna sonora.

Dove Sergio Leone si ambienterebbe, Rossini applaudirebbe, gli impressionisti ritrarrebbero. Noi? Nuje vulimm ‘na speranz.

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