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Fatti e temi del 2021: il crocevia di Mario Draghi. E dell’Italia

La gestione della pandemia, i progetti del Recovery, la maggioranza più ampia mai registrata e, ora, le incognite di un Paese

Chiamato al capezzale di un Paese che si era dato due governi ibridi in due anni, con un Parlamento frastagliato e sul punto di essere sciolto; in una nazione tenuta in ostaggio da una pandemia che ha mietuto 140mila vittime e piegato quasi ogni forma di economia, con un’incidenza non calcolabile su equilibri psicologici di massa e individuali, Mario Draghi – SuperMario, secondo un sorprendente riconoscimento dell’adorante Angela Merkel – ha fatto quel che doveva: ha indirizzato le vele malgrado venti impetuosi e trasversali, quando non avversi, così come gli era stato chiesto dal presidente Sergio Mattarella, recintando spifferi sovranisti e antieuropeisti, bruciando le tappe che l’agenda politica imponeva. A colpi di decreti legge.

Sostenuto dalla più ampia maggioranza politica che – al di là della Costituente – la storia repubblicana abbia mai registrato, ha gestito la pandemia facendo assurgere l’Italia al ruolo di Paese-guida nel Vecchio Continente, percorrendo linee prudenziali e lasciando ampi margini di libertà ai “responsabili”, ovvero i vaccinati. Ha messo a terra il Piano nazionale di rilancio e resilienza: 51 macro-progetti che valgono 232 miliardi di euro, invero ipotecati dal governo Conte 2, e tuttavia somme blindate e scadenze, fino a oggi, rispettate. Ha costretto la Banca centrale europea, in asse col presidente francese Macron, ma non solo, a congelare le politiche di austerity e con esse i vincoli del Patto di stabilità, a dispetto delle pretese di olandesi e austriaci, ora alle prese con disperanti lockdown: «È il momento di dare, non di chiedere. Sostenere la crescita, non comprimerla».
Adesso è al bivio. Che fare? E a chiederselo non è Lenin.

Mandata in archivio in extremis la turbolenta manovra di bilancio da 32 miliardi, 7 dei quali destinati al taglio dell’Irpef, Parlamento, partiti e segreterie si proietteranno verso l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Mario Draghi, seppur nei modi felpati che contraddistinguono un uomo dal suo pedigree, facendosi forte di un Prodotto interno lordo cresciuto del 6% nel 2021 e con una proiezione del +4% nel 2022, ha gettato, prudentemente, la maschera: «Sono un nonno a disposizione delle istituzioni. Il lavoro del governo può andare avanti a prescindere da me». È il passaggio chiave della conferenza di Natale del premier: “io ci sono”. Ed ecco che arriva la partita più dura, con attori – uno in particolare – che solo in questo bislacco Paese possono cercare ancora una parte da protagonista nella commedia. Rialeggiano i fantasmi della farsa, che per una volta di più potrebbe avere il sapore della beffa.

Draghi – manca ancora un mese ma questo è il canovaccio che va delineandosi – se la dovrà vedere con Silvio Berlusconi: 85 anni, 36 processi, una condanna definitiva per frode fiscale, otto prescrizioni, una lunga serie di proscioglimenti e assoluzioni grazie a leggi “ad personam”, indagini delicate ancora in corso, padrone del più piccolo partito del centrodestra epperò leader storico della coalizione, cui né Matteo Salvini né Giorgia Meloni possono opporre resistenza, almeno in apparenza e a viso aperto. Obietteranno taluni: la magistratura ha perseguitato il Cavaliere e la magistratura in quanto a onore e decoro ha perso campo. Ammesso che sia così, il punto che comincia a sfuggire ai più è un altro: qui stiamo parlando dell’elezione del presidente della Repubblica. Una questione di profili. E di adeguatezza storica e rappresentativa. L’olgettinismo è una escludente. E non c’entra il moralismo.
Dunque, il centrodestra è maggioritario in Parlamento ma solo con accordi spuri – sponde renziane – e un “serrato pressing” su un centinaio di “cani sciolti” di derivazione varia, M5Stelle in testa, può imporre un suo candidato al Quirinale. E questo sarà Berlusconi. Dalla quarta votazione in poi, quando serviranno 505 consensi (a scrutinio segreto). Comunque vada sul campo resteranno feriti e cenere. Sia se lo schema del centrodestra dovesse avere successo, con la prima opzione – il Cavaliere – o un candidato di seconda istanza; sia se per arginare il Vietnam di franchi tiratori e veti incrociati si dovesse approdare ad altro sbocco: profilo istituzionale e di garanzia, meglio se centrista. Da qui la ridda di ipotesi: Draghi al Quirinale e Marta Cartabia a Palazzo Chigi; Pierferdinando Casini o Giuliano Amato o, meno probabile al momento, Paolo Gentiloni al Colle, con Draghi che resterebbe a capo dell’esecutivo. Sì, ma per quanto? Perché la possibilità che qualche partito, a questo punto, possa sfilarsi dalla maggioranza di governo è non verosimile, ma certa. Non si parlerà d’altro a gennaio. La “madre” di tutte le partite, l’elezione al Colle – siamo di fatto in un Paese a commissariamento quirinalizio, piaccia o non piaccia è così – , dalla quale si è sfilato con largo anticipo e reiteratamente Sergio Mattarella, malgrado le insistenze dei loggioni.

Sul lungo e impolverato tappeto delle cose nostrane restano, al di là degli snodi politici cruciali, le cose da fare. Che sono numerose e gravose. Il decollo dei progetti del Recovery Fund e la loro gestione che rischia di innescare antichi vizi: sprechi, ruberie, corruttela, fatali ritardi. Il Pnrr è una grande chance che non va perduta per tre essenziali ragioni: la riduzione del gap infrastrutturale tra il Nord e il Sud del Paese; la modernizzazione della pubblica amministrazione; una reale svolta in termini di tutele occupazionali per il pianeta femminile accompagnata dalle risorse giovanili da liberare. A corollario di questa architettura la più strategica, forse, delle rivisitazioni, perché è quella che ci consentirà di renderci più attrattivi all’estero: la riforma della giustizia civile. Non si investe in un Paese in cui ogni appalto viene sospinto nelle sabbia mobili del contenzioso, nell’incertezza dell’epilogo e nel pantano della burocrazia. Ecco cosa ci attende, al netto delle conquiste civili, a partire dallo “ius soli”, perché il Paese è cambiato ed è cieco chi non lo comprende.

Sgomenta che le manovre di palazzo e le ambizioni di piccoli leader non tengano in considerazione gli obiettivi da cogliere nell’interesse generale. Disorienta e lascia attoniti che non si percepisce come non ci saranno altre ciambelle di salvataggio per quest’Italia che veleggia, non solo a causa della pandemia, in acque tumultuose e limacciose. Mario Draghi è stato un buon nocchiero, ha fatto quel che doveva in un difficile periodo storico, chi verrà dopo dovrà seguirne il solco: il dovere prima delle ambizioni e della vanagloria. Non vorremmo ritrovarci nel baratro nel momento in cui ci sarebbero tutte le condizioni per ripartire con rinnovata forza

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