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Sanremo: donne regine del Festival? Il soffitto dell’Ariston resta ancora di cristallo...

Le donne e il Festival: non più vallette, eppure non basta. Dopo le co-conduzioni, è ora di cambiare rotta

«Donne, vita, libertà». Le parole della rivoluzione risuonano nell'Ariston della musica, sul teatro muto, tra le file in ascolto di una parte di mondo che ci sta di fianco, quell'Iran dove essere donna e mostrarne i segni (e i sogni) puzza di catene e morte.

«Donne, vita, libertà». Di togliersi il velo degli abiti e sfilare a seno nudo e cuore aperto. Per raccontare ad una piccola se stessa di com'è cresciuta, di come un nome sia diventato più che un marchio, del perché visibilità e successo non sempre coincidano.

«Donne, vita, libertà». Di fare il proprio mestiere, di essere cronista di quelli rinchiusi da qualche parte e poi dimenticati. Di essere belva, di fare le domande oltre che di dare le risposte.

«Donne, vita, libertà». Di essere di qualsiasi colore perché c'è esistenza sotto ogni pelle, di quanto essere di un nero intenso valga in una Italia pallida. E di portarne comunque la bandiera, di indossarne la sua maglia, di tifare razza umana. Di essere una non madre che parla al suo figlio immaginato.

Drusilla e Pegah, Chiara, Francesca, Paola, ancora Chiara. Certo, di passi avanti rispetto alle vallette statuette che gratificavano solo gli occhi dei Sanremo scorsi (quelli, ad esempio, dei vari Baudo o Bongiorno) ne sono stati fatti. E va riconosciuto ad Amadeus (ma anche a Carlo Conti, Paolo Bonolis, Claudio Baglioni, Fabio Fazio) che la serratura è stata scardinata. Allora perché il contributo delle donne – rigorosamente scelte dagli uomini del Festival – pure ora che è tanto sostanziale resta sempre alquanto marginale?

Come mai le donne scelte dagli uomini del Festival, loro che hanno in mano la chiave dell'empatia, che naturalmente sfondano portoni alti come muri con un tocco, devono bussare per entrare?
Quando di nuovo potrà cadere quel «co» davanti alla parola (che è molto più lunga di tre sillabe) «conduttrice», quando quel «co» smetterà di relegarle a «collaboratrici»? Per trovare una presentatrice su quel palco bisogna andare indietro fino a Simona Ventura e Antonella Clerici. Era rispettivamente il 2004 e il 2010 (con loro, soltanto Loretta Goggi nel 1986 e Raffaella Carrà nel 2001: 4 su 39).

Ora, oggi, vero è che il merito, la capacità, la professionalità non hanno sesso. Vale per gli artisti in gara come per chi la gara la conduce. Quindi perché non pensarci ad una direzione artistica senza barba, ad un momento della storia che farebbe storia in cui lo scettro lo tenga in mano una regina? Forse, magari, se da qualche parte nell'universo dello spettacolo esistesse un nome, una figura mitologica che possa interpretare al meglio quel ruolo là, la Rai potrebbe cominciare a cercarla. Con l'intenzione di trovarla.

E intanto le bambine stavano a guardare un Festival che provava a diventare grande. E le donne di domani potevano vedersi riflesse nello specchio di chi donna lo è già oggi, ad ogni costo. E tutte le femmine senza schermi hanno creduto che la narrazione possa cambiare. Che un giorno, non il prossimo, magari quell'altro ancora, tutti i posti saranno per tutti. Che si potrà essere l'anima della festa, anche senza invito.

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