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A 30 anni dalla morte: tutto su Gaetano Scirea, fuoriclasse e gentiluomo

«La prima volta che Gaetano Scirea stette con me a un raduno della nazionale under 23, pensai 'questo è un angelo piovuto dal cielo'. Non mi ero sbagliato: solo che lo hanno rivoluto indietro troppo presto». Il giorno in cui morì a 36 anni il campione più corretto che il calcio italiano abbia espresso, il 3 settembre 1989, la metafora più calzante alla sua figura di fuoriclasse dal volto umano fu quella di Enzo Bearzot. Per il ct 'mundial', che con le parole scolpiva sulla pietra, Scirea era tornato 'maledettamente anzitempo' da dove era partito, in paradiso. Ma la retorica connaturata a un eroe sportivo gentiluomo non deve oscurare la caratura calcistica di un giocatore che - oltre a essere persona perbene, modello di comportamento e modestia - era un fuoriclasse. Un Beckenbauer, per intendersi, senza l’orgoglio intellettuale del tedesco che si faceva chiamare Kaiser Franz giocando (e parlando) sempre a petto in fuori.

Scirea no, lui anzi quasi mai parlava. E se gli capitava di peccare di orgoglio dopo una delle tante vittorie andando a festeggiare lo scudetto con i compagni di squadra della Juve, nel rientrare a casa alla prime luci dell’alba, incontrando i primi operai che per la strada si affrettavano verso le fabbriche della Fiat, si copriva il volto con il bavero della giacca per il pudore: a suo padre, anche lui operaio, non sarebbe piaciuto vedere il figlio in giro a quell'ora.

E per la verità non piaceva neanche a lui: quando raggiungeva il suo amico Tardelli a Tirrenia per le vacanze, ed erano già personaggi affermati, di sera dopo una cena in giardino si mettevano a giocare a
nascondino con le mogli. Gaetano Scirea da Cinisello Balsamo era schivo, infatti, educato e corretto anche in campo: mai espulso o squalificato, nonostante di mestiere facesse il difensore, 'libero' come si chiamava allora con termine coniato da Gianni Brera e reso universale dalla bellezza del suono e del concetto. Chiudeva i varchi in maniera magica, ma era bravissimo anche a far ripartire l'azione, retaggio di un passato remoto da centrocampista avanzato.

Nell’azione del secondo gol degli azzurri nella finale mondiale del 1982 contro la Germania, quello di Tardelli, Scirea è il giocatore italiano più avanzato e tocca la palla due volte, una di tacco.

D’altra parte era elegante, sul campo si muoveva a testa alta, usciva palla al piede dalla difesa e intuiva il gioco prima degli altri. La Juventus lo aveva preso dall’Atalanta e in bianconero Gaetano diventò leggenda vincendo 7 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa Campioni, quella dell’Heysel, la Coppa
Intercontinentale, la Coppa Uefa, la Coppa delle Coppe e la Supercoppa europea. Con la Juventus giocò 563 partite ufficiali, segnando 24 gol. Campione del mondo con la Nazionale nel 1982 al Bernabeu, Scirea era rispettato perfino dai rivali.

Piansero in tanti quando arrivò la terribile notizia della sua morte in un incidente stradale in  Polonia, sulla superstrada Varsavia-Katowice. Era andato lì per studiare il Gornik Zabrze, avversario in Coppa Uefa della Juve di cui era diventato viceallenatore. Era domenica sera, Sandro Ciotti lesse la notizia dell’Ansa in diretta tv e Tardelli, che era ospite in studio, si sentì male.

Si sentì male con lui tutta Italia, per un personaggio impensabile nel football di oggi, contrassegnato da creste e tatuaggi, ma decisamente anomalo anche allora.

Tra le sue giocate eleganti, i suoi gol, i suoi tanti successi, si intersecano anche gesti ieratici: quando in un Fiorentina-Juventus i calciatori delle due squadre cominciarono a spintonarsi dopo un brutto scontro a centrocampo, Scirea raggiunse il gruppo dei litiganti e con sguardo fulminante disse loro: 'Vergognatevi, in tribuna ci sono le nostre mogli, i nostri figli e i tifosi che ci stanno guardando': la rissa cessò all’istante. Insomma, come spiegò con un’altra metafora indovinata Trapattoni, Scirea era «un leader, con indosso il saio». E in tempi di leader che indossano solo il profilo Facebook, la nostalgia si rafforza.

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