Addio Maradona, dalla povertà al mito della "Mano de Dios": la vita folle del più grande di sempre
Questo terribile 2020 si è portato via anche l’icona più venerata del calcio mondiale, Diego Armando Maradona, colpito da una crisi cardio-respiratoria nella casa di cura dove si trovava da alcune settimane in seguito all’intervento per rimuovere un’ematoma subdurale. Meno di un mese fa, invece, il 'Pibe de oro' festeggiava, con una intervista a France Football, il suo sessantesimo compleanno «sognando di poter segnare un altro gol contro gli inglesi, stavolta con la mano destra!» e confessando quanto gli mancasse far innamorare le persone con le sue folli giocate. Proprio come accadde nel 1986, ai Mondiali in Messico, quando con le mani e con i piedi Maradona fece impazzire avversari e tifosi. Contro gli inglesi, in un quarto di finale ricco di implicazioni politiche per via delle Isole Falkland, Diego si consacrò ai posteri, dribblando ogni avversario ed eludendo i più impliciti dettami di quella che si chiama 'sportività' in nome di qualcosa di più grande, di divino, di eternamente concesso solo a coloro che sono in grado di elevarsi al di sopra di tutto e tutti. - UN’INFANZIA COMPLICATA Difficile, del resto, tenere a freno ogni istinto se sei cresciuto a Villa Fiorito, zona poco raccomandabile di Buenos Aires tenuta insieme da orgoglio e povertà. Difficile rimanere disciplinati quando non c'è nessuno a spiegarti come ci si comporta, come si sta in un mondo che appare lontano, intangibile. Diego impara a giocare molto presto, tra la polvere e le macchine, i vicoli e gli anfratti. Quegli spazi stretti in cui far passare il pallone, rigorosamente di cuoio, regalato dal cugino Beto con il suo primo stipendio, sono la sua prima scuola calcio. Tra baracche e sporcizia, senza allenatori e con il mito dei ragazzi più grandi e più forti. Con il rispetto da conquistare ogni giorno, giocata dopo giocata, rete dopo rete. «Non avevamo la televisione e a casa lavorava solo mio padre. Speravo sempre che potesse prendere un pallone e giocare con me, ma non poteva, si alzava alle quattro per andare in fabbrica. E dormivamo tutti nella stessa stanza, non avevamo spazio per vivere liberi», racconterà a Maurizio Costanzo, nel 2017. «Non ho avuto giocattoli ma amore. Ero il quinto dei fratelli: eravamo in 10 a mangiare». Dieci, non a caso, è il numero che lo accompagnerà per tutta la vita. La prima svolta arriva con le cipolline. No, non c'entrano le piante bulbose anche se, quel piatto povero il piccolo Diego lo conosce bene. Le 'Cebollitas' sono i ragazzi che giocano nelle giovanili dell’Argentinos Junior, allenati da Francisco Cornejo, uno dei più importanti scopritori di talenti di quegli anni. - GLI ESORDI CON L'ARGENTINOS JUNIOR E’ il 1970. Maradona ha 10 anni e per la prima volta lascia la periferia per la grande città. Prende l’autobus, supera viali e ponti, per provare a uscire dalla miseria. A casa sanno che bisogna stringere ancor più la cinghia, un biglietto dell’autobus per loro non è uno scherzo, ma capiscono anche la portata di quell'opportunità. «Il mio vecchio mi lucidava gli scarpini prima di ogni partita. Si prendeva cura di loro, li metteva del bitume, li lavava. Uscivo sempre che erano lucidi mentre gli altri li avevano sempre sporchi. Mio padre mi aiutava a brillare», rivelerà in un’intervista al sito argentino Infobae. Della mamma invece racconterà sempre un altro aneddoto: «A cena diceva sempre di avere il mal di pancia, per farci mangiare di più». Nel 1976 Maradona esordisce in prima squadra. Dieci, sì dieci, giorni prima di compiere sedici anni. E’ il più giovane esordiente nella prima divisione argentina. Record battuto solo da Sergio Aguero, nel 2003. L’attaccante del Manchester City, in questa storia d’intrecci e ricordi, renderà Maradona nonno per la prima volta, molti anni dopo. - UNA CARRIERA DA FAVOLA Nel 1978, Diego ha quasi 18 anni ed è capocannoniere del campionato. Segna perfino un gol da centrocampo punendo un portiere eccessivamente distratto. Ma alla fine di quella stagione arriva la prima grande delusione. Menotti, allenatore della nazionale albiceleste lo esclude dai convocati per il mondiale che, per uno scherzo del destino, gli argentini giocano in casa.Una esclusione, quella del giovanissimo fenomeno, che in patria viene prima ampiamente criticata e poi quasi dimenticata. Quel mondiale l’Argentina lo vince lo stesso. Con o senza Diego. Ed è il primo della sua storia. Maradona però non dimentica quella bocciatura e il suo rapporto con quella manifestazione diventa fortissimo, quasi ossessivo, sicuramente burrascoso. L’apice, come detto, è il 1986, con la 'Mano de Dios', le prodezze con quel sinistro magico, e la Coppa tra le mani. La seconda e ultima vinta dal Paese sudamericano. Nel 1981 arriva la chiamata del Boca Juniors a cui Maradona non può resistere. La Bombonera, teatro non di posa ma d’improvvisazione e bolgia, è perfetta per uno come lui: tutto è fuori dalle righe, oltre gli schemi. Il genio si esalta quando sente il tripudio che solo i tifosi xeneizes (i genovesi, perchè il club è stato fondato da italiani emigrati) sanno regalare. Segna 28 gol in 40 partite. - L’AVVENTURA AL BARCELLONA Il Boca naviga in cattive acque e ha bisogno di soldi. Per Maradona si aprono così le porte dell’Europa. Il Barcellona bussa, paga l’equivalente di 12 miliardi di lire, e porta il «Diez» in Catalogna. Ma così come Pelè fu a un passo dall’Inter anche qui c'è un retroscena da raccontare. Nel 2013, ospite del programma Stop & Gol, Diego rivelò che prima dei blaugrana aveva rischiato di vestire la maglia bianconera della Juventus. «Mi contattarono tramite Omar Sivori. Ma io ero troppo piccolo e non volevo lasciare l’Argentina. Poi l’avvocato Agnelli aveva un grosso problema con la Fiat. Portare un giocatore costoso come me poteva far restare male tutti gli operai». Altri tempi. Sliding doors. Poco dopo, nel 1982, a Torino arriverà Platini, un’ottima consolazione, anche se sarà lo stesso francese, in una chiacchierata con la Fifa, a dire che «Diego era capace di fare cose ineguagliabili. Quelle che potrei fare io con un pallone, lui potrebbe farle con un’arancia». Chapeau. A Barcellona però le cose non sono facili per Maradona. Le giocate irriverenti ci sono sempre, le reti pure. Ma gli infortuni lo bloccano spesso, compresa un’epatite che lo metterà ko per tre mesi. La squadra non sembra mai decollare definitivamente. Non vincerà mai la Liga e, pur mostrando la sua classe, non arriva mai a stringere un rapporto saldo con l’ambiente. - NAPOLI LO ACCOGLIE Esattamente il contrario di quello che succede a Napoli. Il 5 luglio del 1984 la società di Ferlaino, dopo averlo strappato al Camp Nou, lo presenta al San Paolo. Ci sono sessantamila persone ad attenderlo. Per esserci hanno pagato mille lire. E Diego, che quel giorno palleggia emozionato, non li deluderà guidando la squadra partenopea alla conquista di due scudetti con annesso il regalo più grande: surclassare le potenti squadre del nord. Ma è sempre a Napoli che quel binomio di genio e follia trova la sua piena realizzazione. In campo Maradona è imprendibile. Fuori dal campo è sopraffatto da i vizi che lo circondano. Stringe amicizie sbagliate, seduce donne, entra in contatto con la cocaina. Sregolato con gli scarpini, fragile nell’animo. «La droga ammazza. Sono stato fortunato a poterne parlare», dirà a Costanzo. Ma in campo resta il fenomeno di sempre: in sette stagioni, oltre ai due campionati, vince anche una Coppa Italia, una Supercoppa italiana, una Coppa Uefa. E in mezzo c'è quel Mondiale, in Messico, e la gloria eterna. Quelli in Campania sono anni di successi e processi, di idolatria e scandali. Eppure ovunque spuntano immagini, murales. Si ascoltano cori, si scrivono canzoni. Quello di Napoli è un amore che non si estingue neanche quando il 17 marzo del 1991 tutto va in mille pezzi. Un controllo antidoping fatto da Maradona dopo la partita col Bari è positivo. Ancora cocaina. Un anno e mezzo di squalifica. La maglia azzurra non la vestirà più. Molti diranno che il nuovo cedimento alla dipendenza è il frutto della delusione per un altro mondiale perso. Quello del 1990, in Italia, in finale contro l’odiata, quasi quanto gli inglesi, Germania Ovest. Nel 1992 la sua cessione al Siviglia è un pugno duro da digerire per i napoletani. Pur lontano dai campi di gioco, pur sostituito da un giovane sardo dal grande potenziale, Gianfranco Zola, Diego resta Diego. - L’INFERNO DELLA DROGA Così come il dieci della maglia che ha portato in giro per mezza Europa. Un numero che, ad un certo punto, a Napoli decidono che non potrà essere di nessun altro. Maglia ritirata, insieme ai ricordi. In Andalusia Maradona resta solo un anno prima di completare il percorso inverso e ritornare nella sua Argentina: prima Newell's Old Boys, poi ancora Boca, prima del ritiro definitivo nel 1997. In mezzo, un’altra positività, stavolta all’efedrina, in un altro mondiale, quello americano del 1994. L’anno dopo gli viene dato il 'pallone d’orò alla carriera. Ancora alti e bassi, eccessi e premi. E un concetto di sportività che è una rete con le maglie molto larghe. E farci gol, a volte, sembra solo un’illusione. «Pensa che giocatore sarei potuto essere se non avessi preso la cocaina. Che giocatore abbiamo perso», dirà lui stesso nel documentario di Kusturica che mai come altri ha saputo cogliere le debolezze dietro il campione. Dopo il ritiro è la riabilitazione a occupare le giornate di Maradona. A Cuba, soprattutto, ospite del suo amico Fidel Castro che, nel giorno della sua morte, verrà apostrofato dal fenomeno argentino come 'un secondo padrè. «Mi ha aperto le porte quando in Argentina me le stavano chiudendo», confesserà. Sliding doors, again. Diego va vicino al tracollo, ingrassa, rischia già di morire, ma riesce a riprendersi anche grazie al leader maximo dell’isola caraibica e ad alcuni medici che lo salvano in altre situazioni critiche. - LA PANCHINA DELL’ARGENTINA Così, riemerso dall’oblio, prova a rimettersi in pista. Stavolta in panchina. Nel 2008 viene chiamato ad allenare la nazionale albiceleste. Sogna di vincere ancora il mondiale, ancora una volta, pur senza il pallone tra i piedi e con le braccia conserte. Ma le cose vanno male. In Sudafrica, nel 2012, la corsa si ferma ai quarti di finale. Ancora per colpa della Germania. L’Argentina non è Napoli e ormai non gli perdona tutto. Arriva l’esonero e il sogno si spezza. Il suo fisico continua a cedere e Maradona accumula ricoveri e interventi, bypass gastrici e riabilitazioni. Si sposta ad allenare negli Emirati Arabi Uniti prima e in Messico dopo. Non funziona. Intanto l’Argentinos Junior gli ha intitolato lo stadio mentre alla Bombonera è comparsa una sua statua. L'ultima esperienza di Maradona era ancora in panchina, quella del Gimnasia La Plata, squadra con cui aveva rinnovato fino al 2021. Una nuova esperienza per continuare a calcare il manto erboso, calciare un pallone, suggerire una giocata ai nuovi talenti. Con quel pensiero ricorrente, tra isole contese e giocate da fenomeno, che continuavano a riportarlo a quella partita con l’Inghilterra, quando tra uno slalom ubriacante e un intervento divino, conquistò la gloria. L’uomo, dopo sessant'anni, oggi si è spento lasciando però spazio al mito pronto ad abbracciare ancor più l’immortalità.