Cosa è la normalità? Un interrogativo che, da secoli, non trova una risposta idonea a soddisfare tutti i “palati”. Perché evidentemente una definizione che possa mettere tutti d’accordo non c’è. E in alcuni casi l’estremizzazione di determinati concetti come - appunto - la normalità, la perfezione e la bellezza ha portato a pericolosissime derive storiche legate alla razza.
Un nuovo miracolo a Leeds
In ambito agonistico, poi, la perfezione fisica o - quantomeno - la normalità, sono sempre state considerate caratteristiche essenziali di ogni atleta che si rispetti. Ma è sempre vero? No, perché la storia dello sport è piena di casi di atleti speciali che hanno convissuto con alcuni limiti “strutturali”, mettendoli addirittura al servizio del proprio genio. L’ultimo esempio porta a Leeds, popolosa città britannica ubicata nella contea dello Yorkshire. Un nome - Leeds - che fa palpitare i cuori dei patiti del calcio d’inizio anni ’90, quando i Whites spinti dalla coppia Aussie formata da Kewell e Viduka, con il biondissimo Alan Smith nei panni di giustiziere della Lazio in Champions League, spopolava travestendosi da matricola terribile del calcio europeo. Oggi il Leeds dei miracoli è di nuovo in auge grazie al ritorno in Premier (dopo sedici anni di purgatorio nella B inglese) e alla presenza in panchina del “Loco” Bielsa, ma i ragazzi guidati dal maestro argentino hanno dovuto lasciare la scena a una ragazza di Leeds, che indossa sempre una divisa sportiva ma non ha niente a che fare con lo sport più popolare al mondo. Ha il nome italiano, ma il cognome e i tratti somatici decisamente lontani da quelli tipici del nostro Stivale: Francesca Jones, 20 anni, professione tennista. Fino all'altro ieri (o giù di lì) nessuno conosceva la “racchetta” britannica, se non per una piccola stranezza. La Jones è affetta da una sindrome chiamata EEC, ovvero da ectrodattilia-displasia ectodermica. Traducendo dal medicese, la tennista di Leeds è nata con otto dita delle mani e sette dei piedi (in tutti gli arti quelle centrali sono “fuse”). Impensabile anche solo consentirle di competere in uno sport come il tennis, in cui mani e piedi fanno la differenza più che in altre discipline. Dello stesso parere anche i medici che le hanno spesso sconsigliato di cimentarsi nel più nobile degli sport. A 9 anni la scelta di passare da Barcellona (una sorta di luogo taumaturgico per gli sportivi, come leggeremo più avanti) per superare i problemi di equilibrio, effetto collaterale inevitabile per chi è affetto dalla EEC. Ma a volte è la testa, più che gli arti, a fare la differenza. E la ventenne dello Yorkshire si è messa alla prova praticando il tennis molto di più che per semplice passione. Un motore speciale, delle “chele” apparentemente limitanti, le hanno consentito di approdare in scioltezza agli Australian Open, passando dalle qualificazioni. L’8 febbraio, quando il primo Slam della stagione inizierà ufficialmente, ai nastri di partenza ci sarà anche Francesca Jones.
Il “nano” de Dios: non diventerà mai un atleta
Restando in tema di atleti speciali, la fascia di capitano la merita senza ombra di dubbio il più speciale di tutti: Lionel Messi. Secondo alcuni il miglior calciatore di tutti i tempi, secondo molti quantomeno meritevole del podio più prestigioso dopo Maradona e Pelè. Eppure la carriera di Leo, decisamente diversa per contesto storico e familiare da quella del “Pibe de oro”, è iniziata con una salita scoraggiante per chiunque e chiamata nanismo. «Non diventerà mai un atleta», la sentenza per il piccolo argentino nato nel 1987. Ma la sua storia la conosciamo tutti.
La ginga e il doppio passo alla sfortuna
Molto meno nota la fiaba che narra le gesta di Manoel Francisco Dos Santos, per tutti Garrincha. Una storia di nicchia, la sua, ma perfettamente adatta a proseguire sul solco della Jones e di Leo Messi. Il calciatore brasiliano dal dribbling ubriacante, degno componente del ritornello carioca giunto intatto fino all’epoca dei post millennials (Dida-Vavà-Pelè-Garrincha), aveva un piccolissimo disturbo. Che poi tanto piccolo non era: una gamba più corta dell’altra di... 6 centimetri. Come se non bastasse, Garrincha presentava la spina dorsale deformata, un bacino sbilanciato, il valgismo al ginocchio destro e il varismo al sinistro. Acciacchi - eufemismo - lasciati in eredità dalla poliomielite. Con il Brasile ha vinto tutto ciò che c’era da vincere, sdoganò la ginga carioca e mandò per le terre centinaia di avversari (quelli rimasti in vita ancora si domandano come fosse così abile nel doppio passo). Un’unica macchia? Il Maracanazo, ma quella è un’altra storia. Perché quella di Garrincha è una fiaba troppo bella per essere deturpata da episodi tristi.
Dalla polvere... alla gloria
C’è poi una grande categoria formata da atleti e persone comuni che, in seguito a una disgrazia, hanno trovato la forza per ribellarsi e imporsi nel mondo dello sport da paralimpici. Alex Zanardi, che sta combattendo l’ennesima battaglia della propria vita, è l’emblema di come il cuore possa fare la differenza anche senza gambe. La calabrese Giusy Versace, poi, ha reso orgogliosa la propria terra e un’intera Nazione con la sua voglia di reagire e rimpiazzare gli arti inferiori con supporti artificiali e, soprattutto, con il sorriso e con grande entusiasmo. Una storia simile a quella di Oscar Pistorius, fino a quando l’atleta sudafricano non ha rovinato tutto macchiandosi di un grave crimine (condannato a cinque anni per l’omicidio colposo della compagna). Tornando in Italia e riattivando... il sorriso, come non parlare di Bebe Vio? Una schermitrice italiana paralimpica vestita di oro sia in Europa che nel Mondo grazie alle sue prestazioni vincenti.
Storie di sport, storie di vita. Storie di assoluta normalità.
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