Poca gente si ricorda della guerra. Poi c'è gente meno fortunata che se ne ricorderà finché vivrà. Bisogna far capire ai giovani cosa è la guerra. Non c'è prezzo alla libertà di stare e vivere senza aver paura di morire. Una cosa da far capire ai politici soprattutto, sono sempre loro che fanno le cose. E poi c'è tanta gente che va a combattere e che non vorrebbe andarci: tutte le guerre sono uguali, nessun vincitore tutti perdenti.
Parole che appartengono a Sinisa Mihajlovic. La retorica non è mai appartenuta all'allenatore serbo del Bologna. L'Italia ha fatto il tifo per lui quando una malattia grave sembrava volerselo portare via un paio di anni fa, ma anche in quel caso ha mostrato la scorza da duro. Così come da calciatore vinceva i duelli in campo. Perché Sinisa è abituato a combattere sin da ragazzino e all'esterno delle abitazioni c'era la guerra. Il cervello pensava solo a quello, si prendeva una pausa solo quando c'era da tirare un calcio a un pallone in occasione di un allenamento o di una partita. E ora che la parola guerra è tornata a prendersi la scena, quelle ferite si riaprono, a patto che si siano mai rimarginate. Non ha respirato la stessa aria in gioventù ma da uomo dell'Est è apparso molto provato in conferenza stampa anche il dirigente della Juventus Pavel Nedved. «Scusatemi, non ce la faccio a parlare di calcio».
Il derby degli abbracci: Aleksej Miranchuk e Ruslan Malinovskyi
In Ucraina si combatte, arrecando morte e dolore, ma anche il mondo dello sport ha pronunciato il suo no alla guerra. C'è da stendere un velo pietoso sulla scelta del calcio italiano che ha liquidato la questione concedendo “cinque minuti” di ritardo al fischio d'inizio delle partite. Serviva un gesto simbolico, di più non si poteva fare, ma trattare la situazione alla stregua di un contrattempo dell'arbitro o di una rete da riparare non fa onore al sistema calcistico di casa nostra. L'ennesima occasione di riflessione (e azione) persa.
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Molto più lungo e intenso l'abbraccio nello spogliatoio dell'Atalanta tra Aleksej Miranchuk e Ruslan Malinovskyi. I due calciatori - russo il primo, ucraino il secondo - stanno vivendo in prima persona il dramma della guerra. I loro connazionali soffrono e muoiono, ma loro non stanno meglio. Il centrocampista azzurro Matteo Pessina ha raccontato come i due abbiano reagito nello spogliatoio alla notizia dello scoppio del conflitto. Un abbraccio, perché gli uomini sanno fare anche questo.
Sergiy Stakhovsky, l'uomo che spodestò Federer a Wimbledon ora imbraccia il fucile
L'appello disperato è stato lanciato anche da Andryi Schevchenko, uno dei due ucraini più famosi nella storia dello sport (l'altro, l'ex pugile e oggi sindaco di Kiev Vitalyj Klitschko, sta combattendo in patria). L'ex bandiera del Milan si trova a Londra con la famiglia è ha guidato il corteo di manifestanti contro la guerra. Ce ne sarebbe anche un terzo che è entrato nella storia dello sport ucraino: Sergiy Stakhovsky. Quasi nove anni fa con la sua racchetta e il suo servizio devastante mandò in crisi il re di Wimbledon, Roger Federer, eliminandolo al secondo turno. Una gara memorabile. Oggi Stakhovsky, al pari di tanti connazionali, non imbraccia più la racchetta ma un un fucile: si è arruolato per difendere la patria.
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