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Cinque buoni motivi per sorridere contro la retorica nazionalista. Ripartiamo da qui e dalle 4 C

«Eh ma non illudiamoci, perché in fondo nelle italiane che sono arrivate fino in fondo in Europa c'è poco di... italiano». Siamo il Paese di santi, navigatori, poeti e... insaziabili bacchettoni. Una premessa è d'obbligo dopo la cinquina che ammanterà con un tricolore le semifinali delle Coppe europee di calcio (5 squadre su 12 tra Champions, Europa League e Conference saranno italiane): no, il calcio di casa nostra non è guarito di botto. I problemi restano - li analizzeremo più avanti - ma ostinarsi nel non considerare niente di positivo suona un po' come presa di posizione.

Cinque italiane, cinque italiani (tre emiliani...)

Prima il dato numerico spicciolo: non era mai accaduto nella storia delle tre competizioni europee che l'Italia portasse cinque rappresentanti in semifinali. E già questo è un fatto. Piaccia o no, è storia. Potenzialmente il marchio tricolore potrebbe campeggiare sulla vetta di ognuna delle tre competizioni e già questo varrebbe da solo il prezzo del biglietto. Così come vale la pena di tornare a considerare le qualità dei tecnici nostrani. Fatta eccezione per Mourinho della Roma, le altre quattro squadre in semi hanno il manico griffato “made in Italy”: Pioli del Milan, Inzaghi dell'Inter, Allegri della Juve e Italiano della Fiorentina; se a questo tris si aggiunge Ancelotti del Real Madrid (che insieme a Pioli e Inzaghi completa un altro record: tre tecnici emiliani tra le magnifiche otto di Champions ed Europa League...), capiamo che no, non stiamo messi così male neanche in panchina.

Diamo i numeri

«Eh ma quanti italiani giocano nelle italiane che hanno staccato il biglietto per le semifinali? Pochi, pochissimi». E allora prendiamo ad esempio le gare dei quarti di finale e diamo un po' i numeri. L'Inter che ha superato il Benfica ha impiegato cinque giocatori con la bandierina tricolore (45,4%), il Milan appena due (18,2%), la Juventus tre (27,2%), la Roma  cinque (45,4%) e la Fiorentina sei (54,5%): nel complesso poco meno del 40% dei giocatori inseriti dal primo minuto. Un dato negativo ma non sconvolgente se si prendono a modello le squadre che affronteranno le magnifiche cinque nelle varie semifinali europee. Partiamo dalla supercorazzata favorita per la vittoria della Champions, il Manchester City. Guardiola, profeta spagnolo approdato in terra albionica, di prodotti locali ne ha schierati due (Stones e Grealish), emulando il 18,2% del Milan. E il Real di re Carlo? Appena uno, il terzino Carvajal (9%). Voltiamo pagina e passiamo all'Europa League. E qui l'analisi si focalizza ancora sul campionato spagnolo e passa pure sulla sponda tedesca: il Siviglia che ha mandato a casa l0 United di prodotti iberici ne ha sfoggiato solo uno (l'immarcescibile Jesus Navas), attestandosi al 9%, mentre il Bayern Leverkusen di germanico ha piazzato un 36,3% (grazie al quartetto Tah, Amiri, Wirtz e Andrich). Finalino dedicato alla Conference. Qui il dato cresce inevitabilmente perché il livello delle squadre si abbassa, così come la capacità di allargare i cordoni della borsa o far gola a proprietà straniere. Il Basilea, però, non va oltre i cinque svizzeri, così come l'Az Alkmaar propone una cinquina di olandesi (stesso dato dell'Inter e della Roma, per intenderci - 45,4% - ma inferiore a quello della Fiorentina che gareggia nella stessa competizione). Due, invece, gli inglesi che hanno iniziato la gara da titolari nel West Ham (18,2%). Media complessiva? 26%, decisamente inferiore rispetto al quasi 40% del calcio italiano. Della serie: tutto il mondo è Paese (e il nostro è quello di gran lunga messo meglio...). Questo smonta la retorica nazionalista della scarsa presenza di giocatori nostrani nelle nostre rose ma non esenta il calcio italiano da responsabilità riguardo ad altre colpe che, alla lunga, hanno comportato la dolorosa doppia eliminazione dell'Italia dai Mondiali di calcio. E allora? Quali sono i problemi?

(Decreto) crescita, cultura e coraggio-competenza

Il meccanismo si è inceppato da tempo. Gli ultimi due ct della Nazionale - Ventura e Mancini (che ha comunque compiuto il capolavoro della vittoria dell'Europeo) - hanno sostanzialmente ereditato la candela quando di cera ne era rimasta poca e si sono scottati. Una volta ammainate le bandiere dell'ultimo successo Mondiale nel 2006 (nel giro di 4-8 anni hanno appeso gli scarpini tutti, se non si considera il fenomeno Buffon), il ricambio è stato farraginoso e infruttuoso. Ma cosa è intervenuto negli ultimi 17anni? Anche qui una premessa: a chi urla fino a farsi venire la bava alla bocca che l'Italia non è più in grado di produrre i campioni, bisognerebbe ricordare che questi ultimi - i campioni appunto - nascono un po' dove gli pare, non si possono creare in laboratorio ne tantomeno coltivare in un campo (di calcio). Altrimenti il signor Khvicha Kvaratskhelia non sarebbe nato in Georgia, né Osimhen in Nigeria, tanto per citare la coppia che sta regalando a Napoli uno Scudetto lontano a quelle latitudini da oltre 30 anni. Ma nella scala gerarchica, dopo i campioni, c'è ancora qualcosa di molto forte (perché se i Baggio, Totti e Del Piero erano inavvicinabili, all'Italia mancano comunque gli adepti degli step successivi: i Vieri, i Gilardino, gli Inzaghi, i Toni, ecc. ecc.) dei quali, obiettivamente, si sente l'assenza; quell'anello di congiunzione tra i fenomeni e i giocatori normali che ha di fatto spezzato la nostra catena calcistica. Sì, ma perché? Il motivo numero uno è culturale: ebbene sì, la passione per il calcio sta scemando. Duole constatarlo ma è così. In Italia, molto più che in altri Paesi, l'influenza delle pay-tv ha dato una discreta mazzata ai tifosi da stadio, di certo non agevolati dalla vestustà delle strutture (fatte salve pochissime eccezioni, gli impianti più importanti sono fermi ai restyling precedenti ai Mondiali giocati nel 90, ovvero 33 anni fa) e questo si riflette anche su ciò che accade... in strada. Si gioca molto meno, anche in quel caso si preferisce il calcio virtuale dei videogames che quello nei cortili e sui campi di fortuna. Capitolo numero due: coraggio e competenza, che viaggiano a braccetto. Siamo davvero sicuri che nei vivai e nelle categorie inferiori alla serie A i nostri giocatori siano tutti da buttare? Che, per intenderci, è così necessario andare a scandagliare le superfici dove vivono gli oriundi? Il coraggio, appunto, è una caratteristica che ci manca: l'andare a investire su prospetti di giocatori che possono diventare buoni (o addirittura ottimi), preferendo nomi esotici ritenuti più pronti. Coraggio, dunque, che va a braccetto con la competenza. Perché anche gli scout che popolano le tribune dei campi di periferia qualche responsabilità ce l'hanno. Ecco perché su questo tipo di competenza bisognerebbe lavorare. Dulcis in fundo (si fa per dire) il Decreto Crescita: ovvero l'aver creato una pista d'atterraggio comodissima e morbidissima per i calciatori che provengono da altre Nazioni; una sorta di Paradiso fiscale che attira qualche campione attempato. E così chi i giovani locali bravi li ha se li tiene stretti o li fa pagare carissimi, inducendo le big di casa nostra (quelle a cui poi si chiede di arrivare sempre in fondo alle competizioni europee...) a pescare altrove.

Alla fine della fiera, il calcio italiano si porta dietro tante zavorre, ma non voler vedere del positivo nel mandare 5 squadre su 12 nelle semifinali delle Coppe europee è da orbi, da pessimisti cosmici. Da qualche parte bisogna pur ripartire, o no?

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