«In questi giorni c’è una faida di camorra a Napoli. Altro sangue sulle strade. L’orizzonte criminale che ha ispirato “Gomorra” è sempre attuale. Noi raccontiamo l’esercizio del potere ma credetemi, nessuno diventa camorrista guardando Gomorra come nessuno diventa trafficante di droga dopo avere visto “Breaking Bad”. Chi lo dice, non conosce il contesto». Parole chiare e forti, quelle con cui lo scrittore e giornalista Roberto Saviano si è espresso davanti alla stampa al Teatro Brancaccio di Roma durante il lancio di “Gomorra 5 – Stagione finale” in prima mondiale da venerdì su Sky Atlantic e in streaming su Now. La serie tv italiana diventata «un vero e proprio modello da esportare» – citando Nils Hartmann, Senior Director Original Productions Sky Italia – e venduta in 190 paesi, chiuderà i battenti all’apice del successo («L'idea è stata quella di morire da vivi con l’energia narrativa al massimo. Se è rimasto qualcosa di non raccontato è meglio così», ha detto Riccardo Tozzi, fondatore e Ceo di Cattleya, che produce la serie in collaborazione con Betafilm), mettendo in scena la catarsi, il duello finale fra il boss Gennaro Savastano (Salvatore Esposito) e l’amico/nemico Ciro Di Marzio, alias l’Immortale (interpretato da Marco D’Amore). Un successo mondiale, ma anche «un movimento artistico – prosegue Saviano – che sta fornendo una possibilità di riscatto per Scampia, una terra abbandonata da tutti, in cui mancava una possibile alternativa». Del resto, ogni qualvolta si parla di Gomorra e del suo successo, si affronta anche una domanda scottante: raccontare il Male è possibile o si rischia di mitizzarlo? Una tesi sostenuta convintamente, per esempio, tra gli altri dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro Nicola Gratteri, che Marco D’amore (anche regista dei primi cinque episodi e del nono) respinge con forza: «La verità? I camorristi ridono davanti alle scene di “Gomorra”. Nessuno è infallibile ma da dieci anni ci sentiamo ripetere che questa serie è pericolosa, come se esercitasse una fascinazione del lato oscuro. Sono accuse di chi non conosce i luoghi in cui sono cresciuto e da cui sono andato via, e sono tornato per “Gomorra”». A ben vedere, gli assidui spettatori sanno che in “Gomorra” sin dalla prima stagione i blitz della polizia sono sempre presenti, ma sono poco più d’uno spauracchio per i boss: «Per i capifamiglia la polizia è un’interferenza nell’esercizio del potere, non il vero nemico», prosegue Saviano. E anche in questa stagione la magistratura e la polizia bracca Gennaro Savastano, costringendolo alla latitanza: «Noi – replica Salvatore Esposito – raccontiamo il Male ma non lo celebriamo e fuori dal set, credetemi, ci portiamo sulle spalle il peso di questi personaggi e le loro azioni in scena». E se Tozzi lancia una considerazione amara : «Ciò che davvero manca a Scampia è il lavoro, le scuole, il soccorso della società civile, non la mera repressione», ancora una volta tocca a Saviano approfondire il concetto, rapendo l’attenzione della platea in sala: «Gomorra non racconta solo Napoli ma tutte le periferie delle metropoli. Raccontiamo tutta la complessità del potere. D’accordo con gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli abbiamo scelto di osare con il dialetto stretto, non concedendo alcuna tregua allo spettatore. Sarebbe stato fin troppo semplice inventare un personaggio positivo, un eroe come una via di fuga da questo racconto fatto di ombre – afferma Saviano – invece tutti i protagonisti di questa serie partono già rassegnati, sanno che la morte violenta arriverà. Nessuno di loro pensa di potersi salvare e da questa consapevolezza sboccia la forza della narrazione». Cinque stagioni e cinquantotto puntate complessive, con un team di scrittura che – citando Antonella d’Errico, Executive Vice President Programming Sky Italia – «ha scommesso sul coraggio delle proprie scelte artistiche» e tocca alla produttrice Gina Gardini svelare che alla fine della prima stagione «Savastano jr. sarebbe dovuto morire» e invece giungerà al duello finale. Mentre sua moglie Azzurra racconta – e sono le parole dell’attrice Ivana Lotito che la interpreta – «una donna che non è mai vittima, consapevole di non poter vivere il suo amore in un mondo in guerra». La stessa guerra in cui è coinvolto Enzo “Sangue Blu” (Arturo Maselli), esponente d’un’altra tipologia ancora di camorrista che vagheggia un “passato” mitico, perduto. La conclusione è affidata a Marco D’amore, dal centro del palco: «Sono scappato da Napoli a diciotto anni. Recitare in “Gomorra” è stato come muoversi sul filo dell’equilibrista e mi ha cambiato la vita, come uomo e come attore».